Di Alberto Melotto.
Alcuni anni fa, era possibile assistere in televisione ad uno spot pubblicitario del seguente tenore: una ragazza, evidentemente sovraeccitata a causa di un suo malessere fisico (la pubblicità riguardava un rimedio per il disagio legato al ciclo mestruale) caccia, urlando in malo modo dalla stanza il suo fidanzato, il quale rimane passivo e muto in mezzo al corridoio, senza proferire verbo. Subito sopraggiunge l’amica del cuore della protagonista, e si congratula con la protagonista per essersi liberata del suo partner.“ Te ne sei liberata, finalmente!”.
La vicenda prosegue e si conclude, come potrete facilmente intuire, con l’amica che consiglia il giusto farmaco alla ragazza, che torna così spensierata e felice. Senza però scusarsi in alcun modo con il tizio, che nella finzione scenica fa probabilmente di mestiere lo stuntman, visto come accetta di essere defenestrato da ambienti chiusi senza battere ciglio.
Ho chiuso questo raccontino tentando dell’ironia, ma la verità è che quando vidi questo spot (e sapete bene che uno spot tocca vederlo e rivederlo parecchie volte in tv) ne rimasi parecchio infastidito, oserei dire addirittura indignato. Non ne feci parola con nessuno, per due motivi: primo, perché nella cultura che abbiamo ereditato dal passato, e che per i maschi di oggi è un fardello con molti svantaggi e nessun vantaggio, denunciare un’offesa ricevuta, singolarmente oppure relativa al proprio genere sessuale, è visto ancora dai maschi come un sintomo di debolezza e di insicurezza, secondo, perché non avrei ricevuto grandi riscontri, perché il maschio non può essere vittima di discriminazione nella società attuale, questa opzione non fa parte della sceneggiatura.
In altre parole, se un uomo subisce un’offesa afferente alla propria identità sessuale, al proprio essere uomo, con ogni probabilità farà finta di nulla, farà spallucce, perché questa situazione, seppur ingiusta e sgradevole, fa parte delle regole non scritte della società in cui viviamo.
L’altro lato dello specchio, consiste nel fatto che qualsiasi dichiarazione pubblica di celebrità, programma televisivo, spot pubblicitario, film, romanzo, pièce teatrale, abbia al proprio interno frasi anche solo lievemente offensive verso il genere femminile verrà immediatamente stigmatizzata, posta al pubblico ludibrio, e l’autore del misfatto verrà immediatamente costretto a profondere le più profonde e convinte scuse.
Come si spiega questa patente asimmetria? Vien fatto di pensare, di constatare che la cultura del “politicamente corretto”, della difesa della dignità e dell’integrità umane non valga per tutti, ma solo per alcuni, che funzioni per così dire a senso unico.
Dalla rappresentazione della convivenza fra i sessi che ha luogo nei mass-media, quel che appare chiaro, è che l’uomo deve farsi perdonare dalla comunità i propri peccati, deve espiare il proprio essere violento, manipolatore, mentre la donna, eterna e immutabile vittima, attende ancora il momento della propria liberazione, il momento di vedersi affrancata dal dominio e dalla prepotenza maschili.
Un’analisi particolareggiata del rapporto uomo-donna abbisognerebbe di diversi volumi, e non basterà certo un semplice articolo. In sintesi, chi scrive pensa che nella società attuale, priva com’è di partiti politici autenticamente “di massa”, capaci di compiere un’opera di sintesi di alto livello, fra le diverse, spesso contrastanti esigenze dei vari gruppi sociali, e portata dunque a legiferare più sull’onda emotiva epidermica fornita da un sondaggio che sulla base di profonde e motivate convinzioni, in questa società, non vi sono vittime e carnefici, o meglio, ciascuno di noi può vestire i panni della vittima o del carnefice, a seconda delle situazioni e del ruolo che assume di volta in volta. E’ una società che contiene al proprio interno enormi sacche di ingiustizia, che rimangono come ferite aperte, sanguinanti, perché così dev’essere, il principio della competizione sfrenata, assume come corollario che debbano prodursi morti e feriti, che chi cade non debba più rialzarsi e debba rimanere sul selciato, agonizzante.
Una delle questioni più spinose, è quella del regime economico fra ex-coniugi, successivo al divorzio. Le leggi italiane prevedevano, fino a pochissimi anni fa, che l’ex-marito versasse un assegno di mantenimento per gli eventuali figli nati dal matrimonio, oltre ad un assegno a favore della ex-moglie, calcolato sulla base del tenore di vita di cui la moglie aveva goduto nel corso del matrimonio. La sentenza della Cassazione n. 11504, depositata il 10 maggio del 2017, ha modificato i parametri in base ai quali erogare di questo secondo assegno, e con la recente sentenza n. 24934 ha ribadito l’abolizione del calcolo legato al tenore di vita antecedente al divorzio, legando l’eventuale erogazione dell’assegno all’effettivo contributo fornito dall’ex-coniuge alla costruzione del patrimonio.
Purtroppo la decisione della Cassazione del maggio 2017, in sé assai apprezzabile a mio avviso, appare comunque figlia delle contraddizioni e delle ombre dei nostri tempi, per il modo in cui si è originata; mi riferisco al fatto che la sentenza in questione è nata da un contenzioso divorzile di un uomo e una donna appartenenti all’alta borghesia, ovvero un ex ministro della Repubblica e una facoltosa imprenditrice. Decisioni di questo tipo, che non nascono dalla legittima pressione popolare di un forte e convinto movimento popolare dal “basso”, bensì da una diatriba fra un uomo e una donna appartenenti all’establishment, rischiano di essere nuovamente vanificate dal semplice mutar di vento di un’avversa e contraria interpretazione giuridica. In questo senso, la presenza maschile latita, poiché non riesce ad esprimere le proprie reali esigenze, dimentica della lezione gramsciana sui rapporti di forza e sull’egemonia culturale, e su questo torneremo più avanti.
In ogni caso, quando la decisione della Cassazione divenne di pubblico dominio, giornali e televisione si videro obbligati a gettare uno sguardo su una realtà così delicata e piena di sofferenza. Assai numerosi sono i casi di uomini ridotti sul lastrico, non possedendo più nemmeno una casa dove poter dormire.
A tale proposito citerò ancora una scena tratta dal panorama televisivo, passaggio necessario perché estremamente significativo dei nostri giorni. Alla Vita in diretta, trasmissione pomeridiana del palinsesto RAI, dove si trattano casi di cronaca nera, misti a momenti più leggeri di intrattenimento, l’inviato in esterna aveva l’incarico di intervistare le seguenti persone: un padre ed ex-marito che viveva in una sorta di casa-famiglia per uomini non più in grado di mantenersi e caduti allo status di senzatetto, e il presidente di un’associazione benefica di volontariato che tutela chi si trova in queste condizioni. In studio, si trovava un’avvocatessa che cercava di minimizzare il caso dell’uomo, astiosamente facendo presente che non si può generalizzare in queste faccende, di fatto tirando acqua al mulino del femminismo aggressivo di questi anni. In esterna, l’uomo divorziato appariva in tutto e per tutto uno sconfitto dalla vita, a capo chino, letteralmente annichilito e vergognoso, incapace di dire alcunché. A prenderne le difese, soltanto il presidente dell’associazione a difesa degli uomini separati, che con generosità e passione dipingeva l’infelice situazione del suo assistito. C’è però un particolare che svelo solo ora, ovvero che anche il presidente dell’associazione era in realtà una donna.
Come uomo, confesso di avere provato una profonda pena, un profondo imbarazzo. Non soltanto vedevo un mio coetaneo in uno stato di inferiorità umiliante, ma quel che appariva davvero inquietante era il vedere che come genere avevamo ormai abdicato alla nostra autonomia, alla capacità di prendere le proprie parti senza bisogno di intermediari più o meno interessati, peculiarità che contraddistingue le persone mature, adulte e consapevoli. Quell’uomo era in tutto e per tutto un individuo, un essere umano a “sovranità limitata”, come un bambino che deve fare affidamento sui grandi per la propria protezione e il proprio benessere.
Ora, immaginate cosa sarebbe avvenuto a parti inverse, ovvero se un uomo si fosse arrogato il diritto di presiedere un’associazione a difesa delle donne. E’ un’ipotesi talmente fantasiosa e inverosimile, che nessuno di noi può prenderla seriamente in considerazione; se ciò avvenisse davvero, l’uomo verrebbe accusato (peraltro giustamente) quantomeno di paternalismo ottocentesco, di voler parlare al posto delle donne che rappresenta e di voler perciò annullarne la personalità, negando i più elementari diritti di espressione e di parola.
Invece, il caso che ho appena descritto viene considerato accettabile, più che legittimo; questo, perché nella nostra società la donna è vista come portatrice di una superiorità morale che le permette di recitare un ininterrotto monologo che non ammette contraltare d’alcun genere; in altre parole, la donna è portatrice di ogni valore positivo, di ogni istanza progressista e foriera di miglioramento della vita comune.
Accade così che l’uomo contemporaneo venga a trovarsi in un curioso stato di osservato speciale, i cui comportamenti sono sempre sul punto di venire denunciati.
Si pensi a tutta la vicenda sulle regole del corteggiamento. La nota attrice francese Catherine Deneuve rilasciò alla stampa alcune semplici dichiarazioni, dove diceva che l’uomo deve potersi sentire libero di rivolgere complimenti ad una donna, purché lo faccia senza scendere nella volgarità. Immediatamente si levò un coro ostile, dagli ambienti del nuovo femminismo americano e europeo, che di fatto costrinse la malcapitata Deneuve a rinchiudersi in un prudente silenzio.
L’argomento, come dicevo, necessiterebbe di ulteriori approfondimenti. Intendo comunque chiudere queste righe con qualche modesta proposta di soluzione, passare cioè dalla pars destruens alla pars construens, mettendomi così al riparo dal rischio, sempre presente, di fare del puro vittimismo di parte.
Parto da una semplice considerazione: molti comportamenti inappropriati della donna verso l’uomo non sono identificabili o configurabili come reati, per quanto siano moralmente discutibili o esecrabili (pensiamo alle donne che si separano dal marito quando questo perde il lavoro, è un’azione del tutto legittima in termini di legge, ma contraria al più elementare senso di solidarietà umana, oltre che allo spirito dell’istituto matrimoniale, al rimanere insieme nella buona e nella cattiva sorte) appartengono in altre parole a quella “zona grigia” di comportamenti tutt’altro che nobili, che in un dato momento storico vengono tollerati o persino apprezzati, perché chi li compie sa volgere a proprio favore l’approvazione della collettività.
A mio avviso non si tratta solo di immaginare un’azione politica che sappia rimediare a situazioni di palese discriminazione. Quest’aspetto è assolutamente necessario, e occorrerà organizzarsi in tal senso, sempre nell’ottica di venire incontro alle esigenze dell’intera collettività. Gli strumenti, anche a livello legislativo, non mancano, ed infatti si sta diffondendo l’abitudine (un tempo riservata alle celebrità) a comporre un contratto pre-matrimoniale, al fine di scongiurare le feroci e logoranti discussioni sui beni “comuni” ai coniugi, che comuni più non sono.
Questi accorgimenti sono senz’altro molto utili, ma non spostano i termini della questione di fondo, ovvero un rapporto uomo-donna che appare privo di una forte struttura morale ed etica. Per potersi confrontare con autorevolezza con l’altro sesso, occorre che l’uomo compia un percorso molto complesso, tale da prevedere un ripensamento profondo della propria identità di genere.
Nei secoli passati, l’uomo ha sempre potuto fare affidamento su di un ordine costituito che prevedeva un sostanziale asservimento della donna, nella realtà di ogni giorno come nell’ordinamento giuridico. Gli sconvolgimenti avvenuti negli ultimi cent’anni hanno portato a mettere fortemente in dubbio questo stato di cose basato su una prospettiva che era ovviamente iniqua.
Nell’ottica odierna, dove tutto o quasi viene rimesso in discussione, e dove occorre ripensare ogni aspetto del vivere civile al fine di progettare una società di uguali diritti per entrambi i sessi, l’uomo appare in forte difficoltà, perché nella storia non ha mai avuto bisogno di pensarsi, e di agire in termini di soggetto, dinamicamente inserito insieme ad altri soggetti, ed impegnato in un confronto serrato e dall’esito incerto, non scontato.
In sostanza, l’uomo dovrà intraprendere un cammino fatto di introspezione e di apprezzamento della propria identità maschile, in maniera non dissimile ma speculare al cammino fatto dal femminismo nel corso del ventesimo secolo. Ammetto che questa mia tesi è discutibile, perché sembra preludere all’accettazione di uno stato di perenne conflittualità fra i sessi, che potrebbe risultare funzionale al capitalismo odierno che intende desertificare le comunità, e coltivare l’individualismo più estremo.
Tuttavia a mio avviso è un rischio che va corso, perché l’evidente asimmetria nel modo in cui uomo e donna si relazionano fra loro è figlia di questa scarsa o nulla capacità di auto-creazione del sé da parte maschile, che porta appunto l’uomo ad avere stima di sé solo nel momento in cui si relaziona con successo al mondo femminile, nei termini che attualmente sono stabiliti, unilateralmente, dalla donna stessa.
Nel mondo culturale, sociale e politico, esistono centinaia, migliaia di associazioni dove degli uomini si relazionano e si confrontano fra loro, ma mai, semplicemente, in quanto uomini, sempre come rappresentanti, facenti parte, di un sotto-insieme, ad esempio iscritti allo stesso partito politico, tifosi della stessa squadra di calcio.
Questa difficoltà nell’elaborare un’identità collettiva maschile si deve ad una molteplicità di fattori, non ultimo probabilmente il tabù, sempre presente, dell’omosessualità. Non aiuta ad intraprendere questo cammino la bolla di superficialità e di narcisismo nella quale siamo tutti inseriti, e che sembra precludere ogni discorso basato sull’agire coordinato di una collettività. Altrettanto dissuasiva, a questo riguardo, è la presenza, sempre più invasiva, di apparati tecnologici che limitano la nostra stessa capacità di pensiero e relazionale, mentre pretendono e fingono di potenziarla.
Ciononostante, da questo percorso, dipende l’avvio di un dialogo fra uomo e donna che potrà, a lungo termine, essere improntato a quei valori di solidarietà e di mutuo aiuto che attualmente, vengono decantati nella pubblica arena, ma che rimangono lettera morta.