Liberalismo: un totalitarismo perfettamente realizzato.

Di Marco Martini e Simone Lombardini.

Il G20 in Giappone, tra un incontro bilaterale e l’altro, ha regalato un momento di riflessione molto importante sul sistema politico-culturale che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni. Vladimir Putin, infatti, ha dichiarato senza mezzi termini alla stampa che l’epoca del liberalismo è finita, e che andiamo incontro a un’epoca segnata dal dominio della scena da parte dei “populismi nazionali”. L’affermazione di Putin segue di qualche mese un articolo del Financial Times che constatava, inorridito, che stiamo andando verso un mondo di “civiltà-stato”, in perfetta contrapposizione con i pruriti globalisti del liberalismo imperante. “Una civiltà-Stato è un paese che pretende di rappresentare non solo un territorio storico o una particolare lingua o gruppo etnico, ma una civiltà ben distinta. È un’idea che sta guadagnando terreno in stati differenti fra loro come la Cina, l’India, la Russia, la Turchia e, persino, gli Stati Uniti […]”. Naturalmente, i leader europei e i giornali più vicini all’ideologia liberista – uno su tutti, Il Foglio – hanno risposto con inorridito fastidio alle affermazioni di Putin. Altri hanno scelto un silenzio censorio. Resta il fatto che, tanto dall’interno quanto dall’esterno, il modello liberale contemporaneo risulta in forte crisi. Ma non è morto; è anzi una bestia potente, piena di risorse, ma ferita, e quindi incattivita.

Con questo reportage cerchiamo di indagare sulle sue vere e profonde radici ideologiche e culturali, di cui si tende a non parlare mai. Perché? Perché ci hanno venduto, dalla caduta del muro di Berlino, la favola del tramonto delle ideologie. In questo modo, convincendo le masse di vivere in un sistema democratico post-ideologico, non influenzato da idee totalizzanti ma “liquido” e “aperto”, il liberalismo ha giustificato il suo totale dominio sulla politica, sulla società e sulla cultura. Ci troviamo invece, dal 1989 ad oggi, nell’epoca del dominio assoluto del liberalismo contemporaneo, che, va detto, è diverso da quello classico – otto/novecentesco –  in quanto più invasivo e pervicace nel cercare di modellare ogni aspetto del vivere, fino alle più estreme conseguenze per gli individui e la comunità. Vediamo intanto di fare un breve excursus storico, per capire quando comincia a manifestarsi l’attuale impalcato ideologico dominante nel liberalismo.

Il punto di svolta è il 1968. Fino a quel momento, il liberalismo è associato al centrismo in politica e alla strenua difesa dell’iniziativa privata in economia. Lo Stato deve essere “minimo”, lasciando ai privati la quasi totalità dell’intervento nel settore economico, che rispetto ad epoche passate – incentrate maggiormente sul predominio della politica e della religione – diventa il fulcro, il cuore pulsante della società. Tuttavia, alcuni settori – come la pubblica istruzione, le infrastrutture e la sanità – vengono lasciati di competenza allo Stato, che rappresenta gli interessi della borghesia nazionale. Il ’68, con le gigantesche manifestazioni di piazza di studenti e lavoratori e le loro rivendicazioni libertarie, rappresenta – analizzato a posteriori – il momento in cui il capitalismo, e il sistema politico-culturale che lo sorregge (il liberalismo), comprende che stanno per innescarsi enormi modificazioni nell’assetto sociale dell’Occidente. Sta per cominciare l’epoca del “vietato vietare”, la messa in discussione del ruolo genitoriale, dell’autorità dello Stato, fioriscono le utopie sul mondo “senza confini”, la fine della civiltà “patriarcale” europea, la nascita di un uomo nuovo liberato da Dio, dallo Stato, dall’identità nazionale, sessuale, e da ogni altro elemento caratterizzante sul piano sociale “classico”. Per quanto queste rivendicazioni libertarie e anarcoidi vengano supportate da parti che si riconoscono nella sinistra – comunque generalmente in rapporto conflittuale con i partiti tradizionali di quell’area – il seme del ’68, che produrrà frutti soprattutto nel campo delle scienze sociali, si andrà a saldare, soprattutto a partire dagli anni ’80, con il liberalismo all’apice del suo successo politico.

Nel 1989, infatti, viene abbattuto il muro di Berlino e, di lì a breve, salta il tappo sul blocco comunista, che crolla come un castello di carte. Nel 1991 cessa di esistere l’URSS e, con essa, un’era cominciata nel 1917 con la Rivoluzione d’Ottobre. Il liberalismo ha quindi vinto sulle altre teorie politiche della modernità: il fascismo – già sconfitto nel 1945 – e il rivale più ostico e longevo, il socialismo, contro il quale il duello è già iniziato nella seconda metà dell’800. In quegli anni nasce una nuova consapevolezza: la forza inarrestabile del capitale e del “laissez faire” riscoperto dai teorici neoclassici come Von Hayek, in contrapposizione con l’intervento dello Stato in economia – e, di conseguenza, contro lo Stato stesso – dovevano accompagnarsi a una visione nuova del mondo, in cui l’uomo consumatore è il terminale di una macchina globale finalizzata alla produzione di ricchezza destinata a una nuova classe transnazionale, priva di legami autentici con la propria nazione di nascita, solidale soltanto alla propria classe sociale. Partendo il neoliberismo di Hayek e soci da destra, e i “sessantottini” da sinistra – in particolare seguendo il pensiero neomarxista della Scuola di Francoforte – si sono gettate le basi per la nascita e lo sviluppo, nell’ultimo trentennio, di quello che Putin chiama liberalismo ma che, forse più correttamente, andrebbe definito globalismo o mondialismo. Questo pensiero ultraindividualista, con le sue differenti sfumature, ha impregnato le società occidentali scardinando in poco tempo strutture che parevano inviolabili. Si è rivelata proprio la “profezia” di Von Hayek (o meglio, il suggerimento dato dall’economista ai potenti): “Il corso della società sarà cambiato solo da un cambiamento delle idee. Per prima cosa dovete raggiungere gli intellettuali, gli insegnanti e gli scrittori, con argomentazioni ragionate. Sarà la loro influenza sulla società che prevarrà, e i politici seguiranno.”

In realtà, però, analizzando le premesse storiche e teoriche del liberalismo, l’attuale globalismo era un esito prevedibile. Come sostiene il filosofo francese Micheà nel suo “L’impero del male minore”, non c’è ragione di distinguere il liberalismo culturale (permanente liberazione dei costumi a livelli sempre più spinti e senza frontiere) che ha i favori della “sinistra” da quello economico (permanente liberazione dalla coercizione dello Stato in nome di una postulata autonomia individuale assoluta) supportato dalla “destra”. Il liberalismo, anche se sembra assumere opposte fazioni di destra e di sinistra rappresenta in realtà un unico blocco, coerente al suo interno, tanto che non si possono assumere posizioni liberali sul piano culturale senza inevitabilmente finire per accettare anche quelle economiche ( si pensi alla trasformazione della sinistra dei proletari alla sinistra liberista di Renzi) così come non si possono assumere posizioni liberali sul campo economico senza accettare anche quelle culturali (si pensi a Berlusconi o alla Lega che hanno approvato il matrimonio omosessuale, scelto sigle LGBT deputate all’educazione sessuale nelle scuole, ecc.).

Le radici del liberalismo però sono molto lontane nel tempo: tutto cominciò nel 1648 con la pace di Vestfalia che conclude la guerra dei trent’anni, la più sanguinosa guerra mai sperimentata dal genere umano, che secondo le statistiche storiche, trucidò un decimo della popolazione mondiale. La pace di Vestfalia non pose solamente fine a una guerra, ma mise le basi per un nuovo ordine sociale. Nascono gli Stati nazionali, la cui sovranità diventa un valore assoluto, ma al contempo, l’Europa si affranca dalla cristianità, e più in generale dall’influenza culturale della religione. La mutazione culturale è notevole. Per decenni le guerre di religione avevano messo a ferro e fuoco l’Europa causando un trauma notevole e facendo sorgere l’interrogativo: come impedire che ci siano guerre così vaste in futuro? La risposta dei pensatori dell’epoca fu che le guerre nascono per due ragioni essenziali: la disposizione al sacrificio ultimo incoraggiato dall’idea della “virtù eroica” e la pretesa degli uomini di detenere la Verità sul Bene.

Disinnescare le passioni dalla politica è, con ogni evidenza, una delle motivazioni primarie degli architetti della pace di Vestfalia. E allora, vediamo come il lavoro di demolizione dell’eroe passa attraverso la spiegazione della “gloria eroica” come una mera ricerca dell’interesse privato e dell’amor proprio. Sull’altro versante vediamo il trionfo delle tesi relativiste per cui non sarebbe possibile indagare una Verità di Bene in quanto questa Verità non esisterebbe. Bisognerebbe allora lasciare ciascuno libero di seguire le sue inclinazioni morali senza pretendere di giudicarle. Il sublime, tanto decantato dagli antichi ed espresso nel sacrificio personale per l’affermazione della verità, del bene e della giustizia, sarebbe soltanto una maschera d’ipocrisia di narcisisti vanagloriosi e autoritari. Per la prima volta nella Storia una comunità umana (quella occidentale) eleva l’autoconservazione dell’individuo a principio fondante della società ripudiando l’etica delle antiche civiltà che si fondava sul senso del pudore, del peccato e della virtù eroica intesa come sacrificio personale per il bene della comunità. Inevitabilmente, queste premesse culturali permettono l’ascesa della figura del commerciante, un tempo universalmente disprezzata, ora invece rivalutata ed esaltata; il commerciante non cerca la verità, bensì il suo vantaggio, non vuole affermare principi bensì la sua forza contrattuale, non sacrifica sé stesso per gli altri, bensì per il proprio esclusivo tornaconto personale.

Il terreno culturale era pronto per l’avanzata della borghesia mercantile che anche dal punto di vista economico è in totale ascesa in opposizione all’aristocrazia feudale. Quando dopo la rivoluzione francese la borghesia si mette alla guida delle società umane, prima in Occidente, per poi diffondersi in tutto il resto del mondo, abolendo il sistema feudale, si afferma il principio della “neutralità” dello Stato in campo etico (tanto cara alla “sinistra”) e dello Stato “minimo” in campo economico (tanto caro alla “destra”). Lo Stato, ovvero l’organo collettivo per eccellenza, secondo il liberalismo doveva diventare un mero organismo di regolazione e armonizzazione delle libertà individuali. Il suo strumento è il diritto, ma non inteso con la missione di difendere il bene contro il male, bensì di regolare le passioni rivali in base ai rapporti di forza. Uno Stato quindi non solo assente sul piano economico, ma anche uno Stato che non pensi, uno Stato cioè che non raccolga a sé i suoi cittadini attorno a valori di bene condivisi tesi a rendere gli individui comunità.

Fino a prima del 1968 il capitalismo ha potuto funzionare regalando i “gloriosi trent’anni” (impossibili senza l’influenza dell’URSS e del sindacalismo operaio) solo perché aveva ereditato una serie di prototipi antropologici che non aveva contribuito a creare e che non potrebbe mai costituire proprio per via della sua stessa natura: giudici incorruttibili, funzionari integerrimi, insegnanti ricchi di vocazione e ispirazione all’educazione, operai dediti con professionalità al loro lavoro, ecc. Questi profili antropologici però erano eredità trasmessa dalle famiglie di generazione in generazione e appartenevano a periodi storici precedenti al liberalismo: l’onestà, il servizio dello Stato, la trasmissione del sapere, l’opera degna, ecc.

Non è un caso che il ’68 attacchi l’idea stessa di famiglia (andando ben oltre la giusta critica alle forme di dominazione maschile sul femminile). Tutti valori oggi esposti al pubblico ludibrio, derisi, dimenticati, ignorati e sostituiti dal valore unico del denaro e della visibilità mediatica. Fino al 1968 quindi il liberalismo ha potuto godere i vantaggi di quello stock di valori e habitus costituiti nelle società precedenti quella capitalistica. La rivoluzione sessantottina abbatte i vecchi valori delle civiltà pre-liberali ed esaurendo lo stock di valori e habitus, rende lo scambio commerciale privo di ogni connotato etico e quindi autodistruttivo per il sistema stesso. Come infatti ha notato Castoriadis, il liberalismo è vitale soltanto se le comunità dove si inserisce hanno un solido bagaglio etico-morale di riferimento, ma esattamente come un cancro, nel tempo, la cultura del liberalismo da un lato e la sua pratica economica dall’altro, sfaldano il patrimonio di valori, credenze e comportamenti precedenti, innescando un processo di disintegrazione integrale della comunità che da una parte corre verso un relativismo morale fondato su presupposti edonistici (il 1968) e dall’altra parte va verso la privatizzazione integrale dei processi produttivi con la progressiva scomparsa della programmazione e del coordinamento pubblico (il post-1989). La verità che emerge dalla Storia è che ovunque il liberalismo inizierà ad operare ci sarà prima o poi un ’68 e un ‘89.

La nostra opposizione al liberalismo pertanto deve essere “radicale”; chi parla di “destra e ”sinistra” in realtà s’inserisce ancora all’interno di schemi apparentemente antitetici ma in realtà perfettamente saldati e che compongono soltanto insieme il nostro vero nemico politico. Se questa è l’analisi, il nuovo paradigma politico che andrebbe sviluppato dovrebbe essere al contempo anti-modernista e anticapitalista. Bisognerà recuperare e sviluppare adeguatamente quel filone di pensiero appartenente al “socialismo utopico” che storicamente è stato troncato dal marxismo che al pari del liberalismo, si riteneva “scientifico” e che interpretava l’economia come il fatto sociale totale principale da cui dipenderebbe tutto il resto. Il socialismo utopico, invece, era al contempo rifiuto dell’Ancièn Regime, fondato sul privilegio di classe dell’aristocrazia terriera, così come ripudio per la Modernità borghese, in quanto avversaria della morale, della religione e della comunità in nome dell’individualismo esasperato.

L’idea forte che andremo a sviluppare è una comunità umana rinnovata, fondata nuovamente attorno ai valori del sacrificio personale in nome del bene comune e della ricerca incessante della Verità sul Bene in aperta opposizione al relativismo etico e alla concorrenza economica, entrambi parimenti di stampo liberale. Solo da questo ri-orientamento nelle priorità delle società umane, potrà funzionare il progetto di una rinnovata organizzazione economica fondata sulla solidarietà organica di tutti, attraverso la proprietà comune delle terre, delle risorse e delle unità produttive, coordinate dagli organi pubblici di rappresentanza in ossequio agli obiettivi sociali democraticamente prestabiliti.

FONTI:

https://www.ft.com/content/670039ec-98f3-11e9-9573-ee5cbb98ed36

http://www.filosofico.net/hayek.htm

Jean-Claude Michéa, “L’impero del male minore: saggio sulla civiltà liberale”, Libri Scheiwiller, Milano, 2018. Cornelius Castoriadis, “La montée de l’insignifiance”, Seuil 1996.