Di Giulietto Chiesa
Credo che l’intervista di Putin al Financial Times in cui si è espresso sull’obsolescenza del liberalismo sia molto più importante che non una disputa ideologica. Putin ha cambiato terreno. Prima parlava come capo della Russia. Questa volta ha parlato come leader politico dei popoli. I quali, sempre più evidentemente, si rivoltano — sia politicamente non votando più per i partiti tradizionali, sia combattendo con le manifestazioni nelle piazze — contro le élites (che si considerano “progressiste” e “democratiche”) che difendono le prerogative delle minoranze. Dunque Putin parla al mondo: ai popoli europei e perfino al popolo americano. Condivido il senso di questa svolta. Che è politica più che ideologica. Il liberalismo odierno non ha più molto a che vedere con quello delle origini. Che era anch’esso una “ideologia” in senso marxiano, cioè come “falsa coscienza”. Con cui la classe dominante spiega alle classi subalterne il proprio dominio e lo raffigura come giusto, eterno, immutabile. Con la sua ideologia essa si rassicura e esercita quella che Gramsci definì come “egemonia”. Come tale, oggi, il liberalismo sta perdendo proprio il suo scopo: cioè perde egemonia.
Il fallimento dell’ideologia liberale, come ho appena spiegato, è molto più profondo e strutturale di una polemica con la Merkel. La risposta di Putin è un’alternativa morale. Ciò che caratterizza il liberalismo contemporaneo (che è anche globalità, massificatore, manipolatore, totalitario in tutte le sue espressioni fondamentali) è lo sventolamento della trasformazione dei doveri in capricci della minoranza (appunto in questo consiste la manipolazione) in leggi universali. Ciò che accade è che questa sopraffazione delle minoranze pseudo-progressiste, contro i popoli e le loro radici, sta producendo una rivolta. Certo graduale, ma sempre una rivolta. Le bandiere LGBT e della teoria gender, anche se sventolate da tutti i media, sono estranee alle grandi masse. Putin si colloca dalla parte dei popoli, contro le minoranze radicali. Punta lo sguardo sulle “correnti profonde della storia”, sulla base della grande lezione di Fernand Braudel. Nello stesso tempo Putin diventa il teorico della “conservazione” delle tradizioni, delle lingue, delle storie. Cioè della pluralità di esperienze popolari e della loro irriducibilità storica a ogni omologazione forzata. Dietro il liberalismo attuale c’è il potere dei ricchi che diventano sempre più ricchi e sempre più insofferenti a ogni regola.
Putin lascia capire che è meglio Trump che l’élite uscente di questa Europa ormai moribonda. Opera così una chiara svolta: la leadership europea è alleata con il liberalismo totalitario, anzi lo interpreta. L’America portata alla luce da Trump finirà per essere più “popolare” di quanto non fosse quella dei liberali americani: da Clinton a Obama. E, in quanto popolare, più adattabile a un accordo multipolare. Meno imperiale. Cioè alla fine meno guerrafondaia.
Il modello nuovo ancora non c’è. Ma dovrebbe essere quello di un sistema internazionale che torna alle regole. Dove gli Stati, cioè i popoli, esercitano le loro prerogative, i loro diritti, sulla base di accordi. Questo sistema è stato già in gran parte lesionato dal liberalismo e dal liberismo. Ma può tornare in voga grazie al bilanciamento strategico nuovo che parte dall’Asia. Cina, Russia, india.
E l’Europa? Il caos sulle nomine è il corrispettivo della crisi ideale di questa Unione Europea. La vecchia maggioranza popolari/socialdemocratici è lesionata ma cerca di mantenere in funzione i vecchi rapporti di forza. Che però non sono più in grado di ricomporre la vecchia leadership. Questi residuati non riusciranno a ricomporre il mosaico del loro potere e sono destinati a subire gravi e ulteriori sconfitte. Il rischio del panico generalizzato è evidente.