I Lunedì del Laboratorio. L’epidemia di solitudine.

Di Marco Martini.

“Mi descrivo solo per te: sono l’essenza di un rifiuto umano … dimenticato, braccato, esiliato agli estremi confini del mondo … Sono la risata beffarda che non svanisce mai sulle loro labbra … Sono quello che è stato masticato e poi sputato da uno sguardo più veloce di una mitraglia … Sono quello che è costretto a scusarsi per i suoi sguardi ogni volta che incrocia un occhio umano Io sono l’incombente luna di bellezza che non ha campi su cui stagliarsi … L’unica stella che manda una luce scintillante incapace di raggiungere l’occhio … Un essere congelato sotto zero il cui cuore ancora batte e la sua mente ancora brilla e si illumina … Sono l’agnello perduto che ogni volta che cerca di rientrare nel gregge viene bastonato … Io sono colui che ha perso e colui che fa perdere le persone … Sono la sconfitta incarnata”.

Raja Alich, scrittore egiziano morto suicida nel 1979.

Negli ultimi trent’anni, il dominio del neoliberismo nella cultura comune ha letteralmente frammentato e disperso in mille pezzi la società occidentale. I legami familiari, amicali e sentimentali divengono sempre più fragili, messi sotto pressione dalle forze del sistema, che spingono per realizzare compiutamente una società di “monadi di consumo”, per dirla alla Fusaro: individui disconnessi da legami profondi, dediti soltanto al consumo di beni e servizi, in un ambiente umano sempre più avvelenato e cinico. I social, lungi da aiutare i processi di rinsaldamento dei legami comunitari, amplificano le differenze – di pensiero, di aspirazioni, di credo religioso, di fede politica, ecc. – e portano a una vera e propria “ghettizzazione” tra simili per mezzo di strumenti appositi con i quali si possono ignorare gli utenti che più ci danno noia, eliminando di fatto il dibattito e il confronto. Nella società che vive sul mito del progresso infinito, immaginato come una retta che si staglia sempre in avanti, gli individui si raggomitolano sempre più su loro stessi, involvendo verso forme di solitudine esistenziale più o meno accentuate ed estreme.

Si tratta di un fenomeno soprattutto occidentale, anche se non mancano casi significativi in altre parti del mondo. Si prenda ad esempio il fenomeno degli hikikomori che, come indica il nome, ha origini giapponesi significando letteralmente “stare in disparte, isolarsi”. All’inizio di quest’anno, a Bologna, la Città metropolitana ha proposto una serie di incontri sul tema. Questa la descrizione data dagli organizzatori: “La manifestazione di disagio adolescenziale che si esprime con un “ritiro sociale” volontario da parte di ragazzi e ragazze è un fenomeno relativamente recente in Italia. Nell’area metropolitana bolognese, sulla base di una indagine condotta dall’Ufficio scolastico regionale, risultano essere circa 90 i ragazzi che soffrono di questo disagio […]”. Gli hikikomori hanno cominciato ad apparire in Giappone nella seconda metà degli anni ’80 – un periodo storico da cui deriva in larga parte anche l’assetto sociale e culturale odierno – e si sono poi diffusi un po’ ovunque nei paesi più avanzati. Il percorso terapeutico è molto complesso, e non si è in grado, al momento, di offrire garanzie di guarigione certa. Dal Giornale Italiano di Psicopatologia, leggiamo in uno studio di Aguglia et al.: “Hikikomori è una patologia diagnosticabile in persone che hanno trascorso almeno sei mesi in una condizione di isolamento sociale, di ritiro dalle attività scolastiche e/o lavorative, senza alcuna relazione al di fuori della famiglia. Il periodo medio di isolamento sociale è di circa 39 mesi, ma può variare da pochi mesi a parecchi anni. Solitamente sono giovani di età compresa tra 19 e 30 anni, maschi primogeniti nella maggioranza dei casi, che decidono di rinchiudersi volontariamente in una stanza, evitando qualunque contatto con il mondo esterno, familiari inclusi. Solo il 10% dei soggetti interessati è di sesso femminile e di solito il periodo di reclusione è limitato”.

In Giappone la cultura popolare ha provato ad assimilare il fenomeno e ad esorcizzarlo: sono sempre di più i manga e gli anime (fumetti e cartoni animati) che hanno come protagonisti hikikomori o personaggi ad essi riconducibili; d’altronde si tratta di un fenomeno sociale tutt’altro che trascurabile. Uno studio condotto dal Ministero della Salute, del Lavoro e delle Politiche Sociali del Giappone nel 2003 in tutti i centri di salute mentale del paese ha dimostrato che vi sono state oltre 14.000 consultazioni per hikikomori in un anno, non includendo il numero di consultazioni dei genitori. Tornando alla situazione nel nostro paese, è attiva un’associazione che si occupa di aiutare gli hikikomori a uscire dal cono d’ombra in cui si sono reclusi. Navigando sul sito dell’associazione, si scoprono dati e spunti particolarmente interessanti: le statistiche ufficiali italiane parlano di un 87,85% di hikikomori maschi, trovando però l’obiezione dei terapeuti che seguono da vicino questi casi. “Ho modo di ritenere – si legge sul sito –  che le donne hikikomori siano sensibilmente maggiori rispetto a quanto emerge dallo studio e il motivo è da ricercare, con tutta probabilità, nel diverso grado di allerta che si innesca culturalmente quando l’isolamento sociale riguarda un maschio piuttosto che una femmina”.

Un fenomeno meno studiato, ma che sta emergendo con grande clamore negli ultimi anni, è quello dei celibi involontari, o “incel”, dalla relativa sigla inglese. Si tratta in larga maggioranza di uomini e ragazzi, tanto che la “subcultura” incel si associa spesso alle rivendicazioni della “manosphere”, quell’insieme variegato di gruppi e singoli che si occupano dei diritti maschili, pensiamo ad esempio alla difesa dei diritti dei padri separati. Questo collegamento, sulla base evidentemente di una certa solidarietà reciproca, è abbastanza frequente ma non scontato, né ovvio. Gli incel non si isolano dal mondo come gli hikikomori, anzi vorrebbero affermarsi nella società, ma per qualche motivo rimangono tagliati fuori da aspetti importanti del proprio cammino personale, in particolare sul piano affettivo. Alcuni di loro, a giudicare dalla lettura dei numerosi forum e pagine social che trattano del fenomeno, sono affetti da Asperger o altre sindromi psichiatriche più o meno invalidanti, che naturalmente creano loro difficoltà nel rapportarsi agli altri, anche e soprattutto nel campo amicale e sentimentale. Una fetta prominente della comunità incel (se di comunità si può parlare) è però composta da uomini completamente funzionali, socialmente inseriti in modo normale, talvolta anche dotati di una spiccata intelligenza. In questo caso, rispetto agli hikikomori, non possiamo certo parlare di un fenomeno psicopatologico, quanto piuttosto di un sintomo del malessere sociale che si esprime in forme sempre più mutevoli e frequenti.

Negli Stati Uniti si parla frequentemente del fenomeno “incel”, mentre alle nostre latitudini soltanto alcune trasmissioni tv di approfondimento hanno toccato la questione, intervistando degli auto-proclamati celibi involontari, che nella maggior parte dei casi hanno lamentato il peso dato dalle donne e dalla società in genere a degli standard di bellezza e di successo personale ritenuti eccessivi e irraggiungibili, spesso causati da una sovraesposizione a modelli promossi dalla pubblicità o dalla cultura pop, serie tv e cinema in particolare. Il New York Times ha dedicato un editoriale ad alcune tematiche legate al celibato involontario, che spaziano anche su altre questioni ancora più impattanti come la robotizzazione e il transumanesimo. L’articolo si intitola “La redistribuzione del sesso”; l’incipit recita “Una lezione da trarre dalla recente storia occidentale potrebbe essere questa: a volte gli estremisti, i radicali e gli stramboidi vedono il mondo più chiaramente dell’individuo rispettabile, moderato e sano di mente. Tutti i tipi di fenomeni, a partire dalla guerra in Iraq e dalla crisi dell’euro, fino all’era del populismo, hanno avuto più senso alla luce dell’analisi dei reazionari e dei radicali, che in quella degli organi dell’opinione pubblica”. Nell’articolo l’autore, Ross Douthat, parla della strage di Toronto, compiuta lo scorso anno dallo studente Alek Minassian, un dichiarato “incel” desideroso di vendetta nei confronti della società. Nell’articolo si menziona l’economista Robin Hanson, che in relazione alla strage, ha commentato con una provocazione: “Se ci preoccupiamo per la giusta distribuzione di proprietà e denaro, perché supponiamo che il desiderio di una sorta di ridistribuzione sessuale sia intrinsecamente ridicolo? Si potrebbe plausibilmente sostenere che coloro che hanno molto meno accesso al sesso soffrono in modo simile a quelli con un basso reddito, e potrebbero similarmente ambire ad organizzarsi attorno a questa identità per ottenere un miglioramento, fare pressioni per la redistribuzione e almeno implicitamente minacciare la violenza se le loro richieste non venissero soddisfatte.” Le affermazioni di Hanson hanno fatto discutere, trovando l’opposizione soprattutto delle femministe. C’è chi ha dato corda invece all’economista americano, affermando che il mercato delle “sex robot” potrebbe almeno in parte risolvere il problema degli uomini che non riescono ad accedere a relazioni sessuali di sorta. La questione non riguarda soltanto l’America, se pensiamo che nei mesi scorsi, a Torino, fu aperto per breve tempo un “bordello” di sex robot, poi fatto chiudere dalle autorità, che raggiunse rapidamente il tutto esaurito di richieste.

La solitudine, d’altro canto, è come abbiamo visto un fenomeno ormai globale, soprattutto nelle società avanzate. Pensiamo alla Svezia, uno dei paesi presi spesso a modello per la qualità della vita: secondo le più recenti statistiche, il 50% degli svedesi vive da solo, spesso in microappartamenti dispersi nel tessuto urbano delle principali città, senza nessuno – un partner, un familiare, un amico – con cui dividere gioie e dolori della vita. Nella capitale Stoccolma si raggiunge il record mondiale di single: ben il 59% della popolazione. Anche altri paesi dell’Europa settentrionale, di cui spesso si decantano lodi e virtù, non scherzano su questo fronte, pur attestandosi su percentuali inferiori, come la Germania, in cui la popolazione single è il 34% del totale, o la Danimarca, “ferma” al 37%. Nel Sud Europa la percentuale si abbassa sensibilmente, variando dal 10 al 15% a seconda dei paesi, segno di una maggiore tenuta del collante comunitario tradizionale. La percentuale più alta di single svedesi è nella fascia d’età dei 30 anni, quella in cui generalmente si costruisce il grosso del proprio percorso di vita, sia sul piano lavorativo che relazionale. Gli svedesi lavorano tutto il giorno in mezzo alla gente, ma quando tornano a casa trovano soltanto il pc e lo smartphone a connetterli con gli altri, attraverso la “liquidità” dei social network. Viene in mente una scena del telefilm generazionale Scrubs, andato in onda a metà anni 2000, quando il trend sociale “isolazionista” era già presente tra gli occidentali. “Non credo che le persone siano fatte per stare sole – dice alla fine di un episodio il principale protagonista – è per questo che se trovi qualcuno a cui tieni sul serio, devi lasciar perdere le cose di poco conto […] perché niente è peggio che sentirsi soli pur avendo un sacco di persone attorno”. E’ così che vive l’occidentale di oggi: in un continuo e confuso chiacchiericcio, troppo spesso virtuale e superficiale, scollegato da ciò che conta davvero. Una rivoluzione politica e culturale che si rispetti deve mettere in conto di ricostruire la società ripartendo dall’essere umano. Insegnando alle persone, come fossero bambini che scoprono qualcosa per la prima volta, il valore di guardare negli occhi l’altro, di parlargli e di confrontarsi. Il valore di costruire qualcosa insieme.

http://www.jpsychopathol.it/wp-content/uploads/2015/07/05Aguglia1.pdf
https://www.hikikomoriitalia.it/2019/02/dati-statistici-fenomeno-hikikomori.html
http://www1.lastampa.it/redazione/cmsSezioni/societa/201009articoli/58359girata.asp