Venezia muore.

Di Giampiero Lombardini, professore di Urbanistica all’Università di Genova. Lettera aperta ai suoi studenti.

Quando vi avevo annunciato che avrei voluto organizzare un viaggio di studio a Venezia, vi avevo detto un po’ ironicamente: “prima che affondi e scompaia del tutto”. Certo una battuta, ma un piccolo brivido mi era sceso proprio mentre lo dicevo. Perché avevo la netta sensazione che non era, non poteva drammaticamente essere, solo uno scherzo, una boutade. Troppo fragile quell’ambiente lagunare fatto di rapporti delicatissimi, di fili sottilissimi ed esili che legano tra loro acqua, terra (poca e malferma), maree, evento meteo-atmosferici, cicli lunari. La Laguna troppe volte in passato si era mostrata per quello che in effetti è: un ambiente tendenzialmente ostile ed inospitale per accogliere l’uomo. Un ambiente che richiede perciò, per vincere questa strutturale inospitalità, un’attenzione e una cura maniacali che sole, assieme ad un amore per la “terra”, appaiono in grado di garantire una qualche forma di vita umana stabile. Un ambiente che richiede un rispetto rigoroso, quasi assoluto, direi quasi religioso. E di fronte a tutto questo, mentre pensavo ad organizzare il nostro viaggio, mi dicevo: troppo fragili le nostre volontà, incerte e precarie le nostre conoscenze, deboli i nostri spiriti, come la (sterminata) letteratura su Venezia ci ha puntualmente raccontato.

Gli spiriti di noi italiani, intendo dire, che di Venezia dovremmo occuparci ed amarla tutti, perché emblema e simbolo e materialità ad un tempo della nostra unica, irripetibile Patria che i nostri avi ci hanno lasciato così ricca di straordinarie bellezze. Tutto questo pensavo mentre organizzavo il viaggio che di lì a poco avremmo fatto insieme, voi, Andrea ed io. Dicendomi: è cosa buona e spero utile che i nostri giovani studenti, all’inizio o poco più del loro percorso entrino in contatto con questo mondo così straordinario e al contempo così fragile, formidabile esempio di quanto sia difficile eppure affascinante provare a stabilire una relazione di simbiosi creativa con l’ambiente (in uno degli ambienti, appunto, più “difficili” che la storia della città possa annoverare tra i suoi casi estremi). Perché è una lezione “vivente” di quanto sia precario il nostro vagare per la Terra e quanto fragili le nostre pur straordinarie arti che accompagnano le esistenze di ciascuno di noi come di ciascuna civiltà; perché abbiamo sempre voluto dire e dirci, fin da quando riparavamo insicuri nelle caverne, che l’esistenza umana non è solo terra e fatica e dolore. E con quale straordinaria bellezza queste arti si sono sviluppate a Venezia, dalle pietre delle case (anzi: dalle pietre delle fondamenta delle case), fino ai soffitti sublimemente affrescati, ai pavimenti finemente intarsiati, alle quadrerie di artisti che il mondo intero ha riconosciuto tra i più grandi.

Quasi a voler dire che lì, sì proprio lì, dove la vita comunitaria e urbana emerge dalle più difficili condizioni, è più urgente e necessario affermare la forza del nostro spirito. E così siamo partiti (sotto un diluvio, ovviamente) e dopo poco Venezia mi è (e ci è) apparsa così, qualche sabato fa (ero con un gruppo di voi in quel momento, ma anche gli altri avranno di certo visto spalancarsi davanti ai propri occhi un quadro simile). Quel tramonto, con tutte le tinte dei rossi e dei viola e dei gialli che si adagiavano dolcemente, mescolati insieme come nemmeno il miglior Tintoretto sarebbe stato capace, sui tetti, le cupole, le calli, le acque del bacino di San Marco, come un grande, leggerissimo mantello quasi trasparente. A dare colore e vita ad ogni più recondita piega o angolo della città e delle sue acque. Poi come sapete, dopo la vostra partenza, io mi sono ancora fermato un paio di giorni e quando poi anch’io al martedì ho ripreso a mia volta la strada che mi riportava a Genova, aveva cominciato a piovere.

Non so se da quel sabato di ottobre Venezia abbia in realtà più visto il sole, per il susseguirsi continuo di perturbazioni metereologiche che ha caratterizzato questo periodo. Quell’incanto allora, ho appreso con lo stupore contrito simile a quello di un bambino, era svanito: solo di un attimo si era trattato. Un quadro di serenità e bellezza che si è dissolto prima nelle brume nebbiose dei giorni novembrini per culminare infine ieri notte nella tromba marina che ha devastato l’area marciana. La Basilica sott’acqua, la cripta totalmente sommersa, l’intero centro storico allagato, in diversi punti con altezze superiori al metro, negozi e arredi distrutti, Piazza San Marco trasformata in un’orrenda piscina a cielo aperto. È così: Venezia si è mostrata, forse, per l’ennesima volta, come ce l’aveva raccontata George Simmel: una città maschera. Una città la cui straordinaria bellezza, fondata su un’estetica tanto sopraffina quanto multiforme e molteplice negli stili dei suoi ornamenti, nasconde in realtà la drammaticità del suo essere perennemente instabile, precaria, in fin dei conti così improbabile nel suo esistere da sembrare quasi un’invenzione. E così quel tramonto dalle tinte struggenti altro non era che un attimo di felicità che gli eventi successivi hanno infine disvelato quale la più tragica delle illusioni, quella della vita che nasconde, con lo strumento della bellezza, la fatica, il dolore e in ultima analisi la morte.

Venezia muore dandoci prima l’illusione di una vita straordinaria. Ma se muore Venezia, non è (solo) per gli eventi della natura, per la rivincita che quell’ambiente ostile sembra riprendersi con chi ha osato sfidarlo con la sua bellezza. Se Venezia muore è per i tanti troppi errori che tanti uomini hanno fatto. Per la nostra incuria, la nostra superbia nel saper dominare la Natura, per esserci a nostra volta illusi per mezzo della nostra scienza (in realtà assai incerta) e della nostra coscienza (indegna troppo spesso di stare al cospetto di tanta fragile bellezza). Io voglio continuare a credere che Venezia potrà invece continuare a vivere; che anche questa sciagura, così simile a quella del 1966 che tanto scalpore suscitò (ma in tutti i decenni successivi cosa si è fatto, se lo stesso disastro si è ripetuto praticamente identico?), potrà essere riparata e alfine superata. Perché sono all’Università, sento che questo è il mio dovere e il mio lavoro: studiare e lavorare coi colleghi e con voi giovani perché la Bellezza, l’Arte, la Natura non siano solo un’illusione di un sabato declinante verso un tramonto sublime ma passeggero.