I Lunedì del Laboratorio. Populismo? Sì, grazie.

Di Alberto Melotto.

L’avvicinarsi delle Elezioni per il rinnovo del Parlamento Europeo ha riproposto l’ormai consueto lancio di accuse nei confronti dei “populisti”; un esempio per tutti, uno spot elettorale di un partito ecologista accusa i populisti di fomentare l’odio e di produrre un clima di divisione e di instabilità sociale.

Una delle principali proprietà del vocabolo “populismo” consiste nel prestarsi ad essere duttile, e a modificare i propri contenuti a seconda dello spazio e dell’epoca; non stupisce quindi che molte forze politiche abbiano, almeno apparentemente, facile gioco nel mirare ad un obiettivo di questo tipo, così cangiante e inafferrabile da non necessitare una rigorosa spiegazione di tanto velenoso astio. Vedremo però come il populismo abbia molto da offrire, nel panorama politico contemporaneo, e possa rappresentare un formidabile strumento di offesa nei confronti di coloro che noi definiamo “i padroni universali”, i maggiorenti che negli ultimi decenni hanno scardinato il tessuto economico e sociale dell’Europa occidentale, cancellato i diritti dei lavoratori e messo sotto scacco intere società, paralizzate dall’incubo del debito pubblico.

Storicamente, il populismo nasce nella Russia della seconda metà del diciannovesimo secolo. A metà dell’Ottocento, la Russia era un paese ancora molto distante, in termini di sviluppo industriale, dai paesi della Europa occidentale: chi legge gli scritti di molti dei principali dirigenti politici socialdemocratici di paesi come Francia o Germania non avrà difficoltà nel constatare come nessuno fra loro desse credito all’eventualità di una rivoluzione socialista in terra russa. Essere marxisti, significava già allora impegnarsi in un’interpretazione dei testi del filosofo di Treviri spesso priva di ampio respiro, opaca  e incapace di andare oltre la lettera. E’ vero che Marx scrisse che perché si potesse giungere, in un dato paese, allo stadio della rivoluzione socialista, occorreva prima che il capitalismo giungesse al massimo sviluppo, cosicché il campo di battaglia si restringesse a due avversari, il capitalista e il proletario. Lo stesso Marx riconobbe altrove che la particolarità della situazione socio-economica russa avrebbe potuto far sì che la Storia prendesse un altro sentiero.

Resta il fatto che, nella seconda metà dell’Ottocento, alcuni pensatori russi di rilievo, individuarono nel popolo russo, preso nel suo insieme, l’entità a cui rivolgersi nella loro opera di creazione di un nuovo canone politico, il populismo appunto, che letteralmente significa in lingua russa “andare al popolo”, narodnicestvo. Il popolo russo, nell’ottica populista, non doveva pertanto né ammodernarsi, né tantomeno occidentalizzarsi. Come sappiamo, nella letteratura e nella filosofia russe dell’epoca, il popolo veniva spesso mitizzato, nonostante tutti i suoi difetti, e assurgeva ad attore di un rapporto privilegiato, misterioso e pieno di dolore, ma anche di grazia, con la divinità. Il populismo russo rientra senz’altro in questo particolare milieu culturale e filosofico. Ad esempio, come afferma lo studioso inglese G.D.H. Cole , autore di una Storia del pensiero socialista, Nikolaj Constantinovic Michajlovskij rifiutava di vedere l’uomo russo come semplice parte di una classe sociale, il proletariato urbano. Questa visione lo allontanava di certo dal marxismo, che assegna il ruolo creativo alla classe sociale stessa come forza storica oggettiva. Inoltre Michajlovskij, al pari di Petr Lavrov, sosteneva ripetutamente che l’idea di progresso è priva di senso se non si fonda su una valutazione etica. Da qui la sua critica ad Herbert Spencer e al darwinismo, che la portava a sostenere che la crescente complessità di un organismo o di una società non è prova della sua superiorità.

Dove il pensiero di Michajlovskij ci appare maggiormente degno di interesse, nell’ottica della rinascita di un populismo in grado di battersi e di vincere contro il pensiero unico liberista del ventunesimo secolo, è nel suo rapporto con la religione. Pur non essendo un credente in senso stretto, egli vedeva nella religione, un fatto mentale in grado di soddisfare i bisogni dell’individuo. In altre parole, non credeva opportuno liquidare come “sovrastruttura” ideologica la religione; al contrario, considerava l’impulso religioso come profondamente radicato nell’uomo; inoltre, considerava come ogni nuovo passaggio nei rapporti sociali fra le persone fosse accompagnata, nella storia dell’umanità, da una nuova idea religiosa; questo perché, a suo dire, la religione serve da legame inscindibile “fra le cose come sono e come dovrebbero essere”.

Da un punto di vista prettamente politico-partitico, ci ricorda Damiano Palano, autore di “Populismo”, “Socialismo Rivoluzionario si chiamò il partito nato nel 1898 con l’intento di raccogliere l’eredità del movimento populista degli anni Sessanta e Settanta”. Questo partito, insieme ad altri compagini della sinistra di allora, allorché si giunse alla stretta del 1917, cadde nel fatale errore di voler proseguire il conflitto mondiale con gli imperi austriaco e tedesco, decisione ostile al volere popolare che permise a Lenin e ai bolscevichi di prendere il totale controllo del processo rivoluzionario, riducendo al silenzio le altre voci.

Tornando invece alla temperie di metà ‘800, la progettualità del populismo russo guardava ad una forma di socialismo agrario, una prospettiva che avrebbe permesso, nelle intenzioni di questi pensatori, una continuità con alcune istituzioni tradizionali contadine. Questa riorganizzazione economica doveva dunque incentrarsi sulla obscina, la comune contadina, e sulla valorizzazione del ruolo politico del mir, l’assemblea dei capifamiglia, alla quale dovevano essere assegnate funzioni di autogoverno.

Fino ad ora abbiamo individuato alcune caratteristiche che ci permettiamo di riassumere per la loro importanza: il rapporto, positivo e rispettoso con la tradizione religiosa, e con il tessuto familiare e sociale già esistente, alieno quindi all’ambizione perversa di un esperimento sociale su larga scala che punti, con arroganza, a imporre un modello di società alieno; inoltre, l’idea che il popolo nella sua interezza vada cercato, incoraggiato, e non diviso artificiosamente in una serie di sotto-categorie afferenti alla (momentanea o definitiva) professione, al sapere tecnico, allo status socio-economico.

Tratteremo con maggiore brevità di un secondo tipo di populismo, quello sorto negli ultimi anni dell’Ottocento negli Stati Uniti d’America. Anche questa lotta popolare non venne ricompensata con la presa del potere centrale, ma costituì il primo, serio tentativo di praticare una riduzione della disuguaglianza fra ceti sociali, che proprio in quel periodo storico, andava assumeno dimensioni allarmanti, tali da far dubitare, per la prima volta nella storia nord-americana, della veridicità e della bontà dell’american dream, il sogno americano di auto-affermazione e di benessere individuale. Questa esperienza storica ci è utile, perché richiama, in maniera fin troppo puntuale, la nostra esperienza attuale di italiani  di inizio del ventunesimo secolo, a riprova del fatto che il nostro paese ha subito un’americanizzazione forzata, volta a impoverire la nostra democrazia, a indebolirne la forza vitale, originariamente tesa al raggiungimento della giustizia sociale.

Ci riferiamo al fatto che l’insieme dell’offerta elettorale, negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo, vedeva negli Stati Uniti un bipartitismo utile soltanto a soddisfare i fautori della democrazia liberale, ma non, evidentemente, a soddisfare le necessità pratiche di milioni di piccoli proprietari terrieri, oppressi dal sistema bancario, inflessibile nel riscuotere i propri crediti e nel togliere la casa e i terreni a chi non era più in grado di pagare. Democratici e repubblicani si alternavano al potere, entrambi solleciti nel garantire ogni rendita possibile alle grandi corporations, antenate delle moderne multinazionali. Era l’America uscita dagli odi infiniti della guerra civile, dove il potere economico si andava posizionando nelle mani di pochissimi, grandi azionisti, l’america raccontata da Jack London nel suo romanzo distopico The Iron Heel, Il tallone di ferro.

Rievocare queste pagine di storia serve, e non è cosa da poco, a smentire una delle più trite accuse al populismo, da parte di un ceto intellettuale che si schiera dalla parte dei padroni del mercato mondiale, ovvero l’accusa di razzismo. Proprio il Populist Movement, come ci ricorda Damiano Palano, “si propose l’obiettivo di avviare forme di collaborazione fra bianchi e neri negli stati del Sud. La Coloured Farmers Alliance, un’associazione di agricoltori nei fondata in Texas e composta da un milione di iscritti, guardò con notevole interesse alla nascita del People’s Party, anche perché tra la popolazione afroamericana stava gradualmente maturando un sentimento di disillusione nei confronti del Partito Repubblicano, ormai percepito come molto lontano dagli ideali di Lincoln”.  Oltre alla difesa degli interessi degli agricoltori, i populisti americani proponevano una più equa tassazione, ottenuta con la progressività sul reddito, nazionalizzazioni nel campo dei trasporti navali, e un maggiore controllo sulla moneta americana, tema anch’esso profetico.

Il ventesimo secolo illumina con maggiore chiarezza il fenomeno populista, e al tempo stesso crea intorno ad esso una cortina di fumo che ne deforma i contorni, e quasi sempre ne offre al grande pubblico un’immagine falsata e lontana dal vero.  In molte parti del mondo, e principalmente in America Latina, già nei decenni centrali del Novecento esperienze assimilabili al populismo raggiungono il potere, ma questo risulta sgradito a molti intellettuali dell’allora sinistra marxista europea, che non seppero o non vollero cogliere i segnali positivi di una discontinuità con i precedenti regimi legati alla destra reazionaria dei grandi proprietari terrieri, e della subordinazione agli interessi statunitensi, e con forte miopia si limitarono a constatare l’irriducibile diversità rispetto al dettato marxista. Se, ad oggi, il vocabolo populista ha assunto, suo malgrado, il significato simile a quello di demagogo e di autoritarismo, lo si deve purtroppo a quel tipo di analisi, non priva forse anche di un certo disprezzo euro-centrico. L’attuale vulgata del politicamente corretto, serva degli interessi sovra-nazionali del capitalismo ormai privo di regole e di limiti, ha saputo approfittare di questa ostilità pregressa verso il populismo, per comporre il canto dell’odio nei confronti di chi tenta di sfuggire alla totale mercificazione dell’individuo e della comunità.

Nel quadro della storia del secolo scorso, l’esperienza peronista spicca in modo particolare, per la quantità di aspettative che ha saputo suscitare, nel popolo argentino, aspettative che, col passare del tempo, si sono trasformate in una sorta di adorazione mistica, che ha avuto come oggetto la seconda moglie di Peron, Evita.

Trattare questo argomento ci permette di introdurre la figura di Ernesto Laclau, (1935-2014), filosofo e teorico politico argentino, autore di un testo, “La ragione populista” del 2005, che partendo da quella che lui considera una posizione post-marxista “io non ho ricusato il marxismo. E’ successo qualcos’altro. E’ il marxismo che è andato in pezzi. Io mi tengo aggrappato alle sue schegge migliori”, approda all’elaborazione teorica di un possibile populismo dei nostri tempi.

Fino alla fine degli anni ’60, quando si trasferì in Inghilterra, Laclau fu egli stesso un militante politico nelle fila di un partito politico interprete del peronismo di sinistra, il Partito Socialista della Sinistra Nazionale. Quel che ci interessa della sua teoria politica nasce dal racconto di una parte della vita e della carriera di Peron, quella che va dal 1955 al 1973. Dopo un decennio di governo del paese (1946-1955), Peron venne estromesso brutalmente da un golpe militare, e costretto all’esilio. A questo punto, ha inizio un singolare processo che coinvolge il leader politico, e le masse popolari da cui egli è stato allontanato con la forza. Peron procura di far giungere in Argentina semplici frasi , slogan politici che, promettendo un diverso futuro per l’Argentina, tengono alta l’attenzione del paese, e che col passare del tempo accrescono la sua fama, irrobustiscono il suo ruolo di convitato di pietra, di primula rossa, inafferrabile e capace di trarre forza dalla propria assenza sul territorio argentino. Di sé egli dice, durante questo periodo, di essere diventato “una sorta di Papa”. Particolarmente significativo il fatto che, Peron preferisca non smentire le frasi apocrife che la gente comune inventa col passaparola, e che sono di fatto indistinguibili da quelle da lui effettivamente pronunciate.

Laclau definisce questo modo di procedere la strategia del “significante vuoto”. Ovvero, la strategia di un populismo che voglia attecchire nella società deve avere come strumento, come scintilla, un capo carismatico capace di convogliare su di sé l’ammirazione delle folle, foriera di una volontà di azione politica. La piattaforma politica dev’essere inizialmente una sorta di pagina bianca o di scatola vuota, il “significante vuoto” appunto, termine cooptato dagli studi dello psicoanalista Jacques Lacan. La mancanza di contenuti non è un male di per sé, secondo Laclau, almeno in questa fase iniziale, perché permette a tutti i contraenti del patto populista, i cittadini della nazione, di non dover firmare un programma pensato soltanto in funzione di una parte della nazione stessa (pensiamo ad esempio alla dottrina marxista e al ruolo egemonico in essa svolta dalla classe operaia). Una volta attivato questo processo virtuoso, occorre che le domande di giustizia sociale rimaste inevase nel regime precedente, trovino il modo di collegarsi fra loro, quella che Laclau definisce “catena equivalenziale”. Come argomenta Carlo Formenti , Laclau ritiene tutte le rivendicazioni possiedano uguale legittimità, non soltanto quelle che hanno radici nei rapporti di produzione interni al capitalismo. Le diverse lotte possono trovare un’intesa su un piano simbolico, e legandosi fra loro sul piano dell’immaginario collettivo giungere a creare una ritrovata egemonia culturale in senso gramsciano.

La costruzione di un tale processo non è esente da rischi e fallimenti, come dimostra la parabola stessa di Peron. Una volta tornato al governo, nel 1973, egli dovette fronteggiare la montagna rappresentata dalle diverse, spesso opposte rivendicazioni che i suoi stessi discorsi clandestini avevano suscitato nei vent’anni di esilio. Stretto nella contrapposizione tra un peronismo di destra e di sinistra, non seppe trovare un sentiero sicuro per uscire da queste secche, fino alla morte, sopraggiunta di lì a poco, nel 1974. Occorrerà ricordare che nel 1976 l’Argentina vide l’avvento di un altro, crudele golpe militare.

Il discorso di Laclau, in ogni caso, ci lascia intendere che può esistere un populismo socialista. Lo si evince chiaramente in altre pagine del suo “La ragione populista”, dove il secondo esempio di discorso populista, dopo l’Argentina di Peron, è il Partito Comunista Italiano sotto la conduzione di Palmiro Togliatti, ovvero dalla fine del secondo conflitto mondiale alla metà degli anni Sessanta. Di questa proposta politica, Laclau apprezza la precisa volontà di voler rappresentare la totalità delle masse popolari, e non soltanto, il proletariato urbano inserito nel contesto produttivo delle grandi città del Nord Italia. Questa vocazione, tipica del “partito nuovo” fortemente voluto da Togliatti, e , prima ancora, da Antonio Gramsci, pienamente indirizzata nel solco di una democrazia parlamentare e “progressiva” al tempo stesso, ovvero votata ad un sostanziale mutare dei rapporti di forza in favore delle stesse masse popolari, avrebbe meritato maggior fortuna, secondo Ernesto Laclau, ma ebbe la peggio nello scontrarsi  con le esigenze del mondo bipolare e della guerra fredda; in altre parole, se da un lato gli Stati Uniti d’America si adoperarono intensamente per impedire la formazione di governi di coalizione comprendenti il PCI, dall’altra il cordone ombelicale che legava i comunisti italiani all’Unione Sovietica contribuì a raffreddare parti importanti dell’opinione pubblica italiana nei confronti della proposta comunista (si pensi all’invasione sovietica dell’Ungheria, nel 1956, che allontanò non pochi militanti, dirigenti e intellettuali dall’orbita del PCI).

Venendo all’oggi, è inevitabile fare riferimento ancora una volta all’America Latina come portatrice di iniziative volte ad affrancarsi dal dominio sovra-nazionale. Ancora una volta, tutti i tentativi di creare degli Stati-nazione indipendenti dall’ingombrante vicino statunitense, e capaci di indirizzare l’economia verso un sistema misto, e maggiormente amico del popolo, vengono sistematicamente bollati dai nostri media, televisione e carta stampata,  come “autoritari” e “sanguinari”, decisi a soffocare senza remora alcuna ogni velleità popolare di libertà (esemplare il caso venezuelano, dove l’auto-proclamato presidente Guaidò può vantare un brillante curriculum a libro paga dei servizi segreti americani). Il nostro panorama culturale contemporaneo è figlia di una visione dove, vige incontrastato lo schema liberale di marca anglosassone, portato alle estreme conseguenze. Il “governo della legge”, che non prevede alcun confronto con l’autentica volontà popolare (pensiamo ai trattati che ci legano all’Unione Europea), la “protezione dei diritti umani” e rispetto delle libertà individuali.

A conclusione di questo articolo, ci cimentiamo nella proposta di una serie di punti-cardine che, a nostro avviso, un partito populista, deve proporre.

  1. Proteggere e difendere la popolazione italiana, quale essa è, nella sua natura e nella sua tradizione culturale e religiosa, figlia di secoli  di grandi conquiste in campo letterario, filosofico, artistico e scientifico. Nell’attuale momento storico, ciò significa, concretamente, sapersi battere contro il transumanesimo e la filosofia gender, portatori di un attacco verso l’umanità che non ha precedenti nella Storia. Opporsi a questa deriva significa ripristinare il ruolo educativo che i genitori e gli insegnanti possedevano nel passato. Significa rivendicare una complementarietà tra uomo e donna basata sul rispetto reciproco, complementarietà che sappia valorizzare le differenze, e non imporre un modello di essere umano “amorfo”, privo di una specifica sessualità. Significa opporsi al tentativo di indebolire e annullare sistematicamente l’identità maschile. Significa, infine, mettere fine al lassismo che permette di spacciare per “diritti” quelli che sono “desideri” e che spesso portano a violare l’integrità morale e fisica dei più deboli, si pensi per esempio al degradante fenomeno dell’”utero in affitto”.
  2. Come detto in precedenza, nessuna classe sociale, etnia o categoria sociologica può arrogarsi la funzione salvifica di “salvare” la nostra società. Questo è vero a maggior ragione, per gli uomini e le donne che dall’Africa e da altri continenti si muovono verso l’Europa e l’Italia. Pensatori in evidente cattiva fede, come Toni Negri autore del volume “Impero” intendono magnificare i migranti come la forza anti-sistema capace di scardinare l’attuale capitalismo. Questa è un evidente falsità, perché i molti che fra questi fuggono per migliorare la propria condizione economica, e che sono in grado di pagarsi il viaggio sui barconi guidati da sfruttatori, non desiderano altro che partecipare al benessere, più immaginario che reale, dei paesi occidentali, e non sono in grado di esercitare alcuna funzione critica verso le élite dominanti, ma al contrario sono duttile argilla, disposti come sono a mutare abitudini, in perenne viaggio da un paese all’altro.
  3. Difendere il nostro paese significa riappropriarsi di ciò che è stato sottratto negli ultimi trent’anni. Una robusta serie di nazionalizzazioni dovrà riportare l’Italia ad essere padrona del proprio sistema di infrastrutture, e di una serie di comparti industriali strategici. In questa direzione, occorrerà guardare con attenzione al concetto di delinking, nei termini proposti, ad esempio, da autori del “sud del mondo” come Hosea Jaffe a Samir Amib. Delinking (letteralmente “sganciarsi”) significa ritrovare una piena indipendenza nazionale, sul piano energetico, rinunciando all’uso ormai obsoleto del petrolio come fonte di energia. Ciò permetterà di ritrovare autonomia rispetto al quadro internazionale e geo-politico. Da questa serie di considerazioni si evince che populismo e decrescita possono e debbono confrontarsi fruttuosamente, poiché entrambi predicano una “via nazionale” che esclude l’utilizzo forzato di ricette precostituite.
  4. Venire incontro alle esigenze del popolo significa prima di tutto, rendersi conto che il pensiero unico liberista ha operato nel nostro sistema legislativo, e di conseguenza, nella carne viva della nostra società, un’opera distruttiva dei diritti dei lavoratori che si è espressa anche attraverso la frammentazione, sociale ed economica, dei lavoratori stessi. Lavoratori dipendenti, piccoli imprenditori e negozianti, Partite Iva, tutte queste categorie sono separate le une dalle altre e non agiscono di concerto, come invece dovrebbero, per ribellarsi alla dittatura dei padroni universali. Sarà compito di un’autentica politica populista sanare queste ferite sociali, che spaziano dal fenomeno dei working poor ai debiti accumulati dalle piccole e medie aziende che portano persino al suicidio, alle molte persone escluse dal lavoro dopo anni di lavoretti malpagati. Occorrerà pertanto varare un piano di assunzioni pubbliche, finalizzate al varo di un nuovo, ambizioso Stato Sociale che operi con rinnovato vigore e acume nei campi della sanità, dell’istruzione, della cura degli anziani e dell’ambiente. Per evitare di lasciare privi di reddito milioni di persone, occorrerà pensare ad una “pensione di cittadinanza” oltre che ad un autentico “reddito di cittadinanza”.
  5.  L’Italia deve porsi, come obiettivo finale, l’uscita dalla Nato. L’alleanza atlantica è stata portatrice di infiniti lutti dal secondo dopoguerra ad oggi. E’ stata ed è causa di una instabilità che mina la fiducia nel futuro da parte di tutti coloro che hanno a cuore la pace mondiale. L’Italia non deve avere nemici, deve collaborare, insieme agli altri popoli e nazioni della terra, al raggiungimento del benessere collettivo. Un mondo multipolare è di per sé garanzia di pluralità di pensiero e di opinione. A questo si dovrà giungere, ben sapendo che ovviamente necessiterà della messa in campo di energie che, per ora, non sono ancora in essere.
  6. Un autentico partito populista dovrà impegnarsi con tutte le proprie forze per muovere l’opinione pubblica, italiana ed europea, verso l’elezione popolare, diretta, di una Assemblea Costituente Europea, che dovrà varare il progetto di una Costituzione Europea. Tale progetto dovrà essere sottoposto all’approvazione di tutti i paesi dell’attuale Unione Europea. Ogni Stato membro, entro un anno dal varo della nuova Costituzione, potrà scegliere se accettare o rifiutare la nuova Costituzione. Il Consiglio Europeo e il Consiglio dei Ministri Europei dovranno convergere verso un’unica istituzione europea per le materie che saranno definite di carattere comunitario (in particolare la Politica Estera e quella di Difesa e Sicurezza Comune). Le attuali materie di competenza del Consiglio dei Ministri Europei dovranno ritornare nell’alveo degli Stati nazionali o del Parlamento Europeo.

Bibliografia:

Ernesto Laclau, La ragione populista, Laterza, Bari-Roma, 2005

Carlo Formenti, Il Socialismo è morto, viva il Socialismo!, Melterni, Milano, 2019

Damiano Palano, Populismo, Editrice Bibliografica, Milano, 2017

Marco Tarchi, L’Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, Il Mulino, Bologna, 2003

G.D.H. Cole, Storia del pensiero socialista: 1889-1914, la Seconda Internazionale, Laterza, Bari, 1972