I Lunedì del Laboratorio. Sviluppo demografico: un enigma per il futuro del pianeta.

Di Alberto Melotto.

In un incontro pubblico organizzato dalla nostra associazione sul tema delle Grandi Opere Inutili e tenutosi a Torino la settimana scorsa, Luca Mercalli, meteorologo e scrittore di diversi volumi sul tema dei cambiamenti climatici, ha affermato che è necessario una volta di più mutare il nostro stile di vita, smettere di inquinare e di produrre anidride carbonica, metter fine al consumo di suolo e di foreste, anche perché, ha affermato “nel 2019 siamo sette miliardi e settecento milioni sul pianeta Terra, le risorse già ora non bastano a sfamare tutti, più di 800 milioni di persone non hanno di che sostentarsi”.

Fin da qui occorre ribadire ed entrare nel merito del problema per affermare che l’aumento della popolazione non porterebbe necessariamente come conseguenza il fenomeno della carestia in alcune zone del pianeta, quali ad esempio il continente africano; se ciò ha luogo, si deve principalmente ad una diseguale distribuzione della ricchezza nell’economia mondiale globalizzata. Infatti, considerando che il Pil mondiale ammonta a circa 75 trilioni di dollari, dividendo tale cifra per i sette miliardi e settecento milioni di persone oggi al mondo, ciascuna persona potrebbe disporre di quasi 10.000 dollari all’anno, ovvero, per una famiglia composta dai genitori e due figli,quasi 40.000 dollari l’anno.

Fin da qui occorre ribadire ed entrare nel merito del problema per affermare che l’aumento della popolazione non porterebbe necessariamente come conseguenza il fenomeno della carestia in alcune zone del pianeta, quali ad esempio il continente africano; se ciò ha luogo, si deve principalmente ad una diseguale distribuzione della ricchezza nell’economia mondiale globalizzata, infatti se calcoliamo che il Pil mondiale ammonta a circa 75 trilioni di dollari, ebbene dividendo tale cifra per i sette miliardi e settecento milioni di persone oggi al mondo si giungerebbe alla cifra di quasi 10.000 dollari all’anno a persona, ovvero per una famiglia composta dai genitori e due figli quasi 40.000 dollari l’anno. E’ evidente che siamo ben lontani da questo tipo di giusta ripartizione, inoltre i cambiamenti climatici, che causano desertificazione, siccità e improvvise catastrofi ambientali, portano intere popolazioni a migrare in cerca di fortuna.

Resta il fatto che di sviluppo demografico si parla meno che nel recente passato. Che fine ha fatto, in effetti? Nei tempi convulsi e febbrili, e al tempo stesso miopi e opachi, che ci tocca di vivere, ogni considerazione sullo sviluppo della popolazione mondiale viene relegata nella soffitta della nostra coscienza civile e politica, in quel luogo dove vengono riposti tutti i problemi che non si ha tempo per analizzare e risolvere, oppressi come siamo dalle nostre necessità di sopravvivenza quotidiana e individuale.

A ben vedere, questo argomento non è del tutto assente. All’interno del pensiero decrescista, per restare a quanto di nuovo è emerso negli ultimi decenni nel campo della filosofia politica, il controllo delle nascite occupa uno spazio tutt’altro che secondario. Anche fra coloro che si dicono sovranisti, possiamo trovare più di un accenno al tema del tasso di natalità, coniugato in questo caso sul versante opposto, di chi invece preme perché le famiglie italiane possano tornare a mettere al mondo un numero maggiore di figli. In entrambi i casi, l’accento si pone su decisioni che vengono (o dovrebbero essere prese) a monte, rispetto alle quali il tasso di natalità è soltanto una logica conseguenza. Nel leggere i testi di alcuni fra i maggiori esperti di demografia, ci si rende conto che questo modo di pensare è falsamente consolatorio, e fuorviante: le abitudini e i modi di pensare rispetto alle scelte di maternità e paternità sono mutate enormemente negli ultimi decenni, e spesso le scelte individuali hanno battagliato, a muso duro, contro le restrizioni alle nascite o le esortazioni a procreare dei singoli stati-nazione, risultando comunque vincitrici.

Lo studio della demografia “studio quantitativo della popolazione umana nei suoi aspetti biologici, sociali ed economici, condotto sulla base di censimenti, rilevazioni locali e campionarie” secondo la garzantina, ha sempre trovato un fertile terreno nei paesi anglosassoni. Negli ultimi due secoli e mezzo, Gran Bretagna e Stati Uniti hanno speso notevoli energie, al fine di esercitare un durevole veto alla proliferazione incontrollata della specie umana sul pianeta. Questa passione triste, insufficiente a scaldare i cuori, ma appropriata a muovere le azioni di uomini e donne animati dalla rigida dottrina calvinista, trovò il suo inflessibile sacerdote, “genio oscuro e terribile” come lo definisce Fred Pearce, ovvero Thomas Robert Malthus.

Malthus, giovane reverendo di campagna nel Sussex di fine ‘700, possedeva uno spirito di osservazione, che non si accompagnava certo ad una capacità di empatia verso i propri simili. Osservava i figli dei contadini, denutriti al punto da dimostrare quattordici anni quando in realtà ne avevano diciotto o diciannove. Il vento di libertà che giungeva dalla Francia, con la sua seducente promessa di Rivoluzione, non fece presa su quest’individuo timido e sospettoso, al contrario. Diversamente dal padre Daniel, che era amico del giornalista di tendenze anarchiche William Godwin, Thomas possedeva una predisposizione al pessimismo che non lo rendeva certo incline a spericolate riforme sociali, tutt’altro. Come afferma Fred Pearce “la visione di Malthus era semplice, cupa e devastante. Priva di controllo, la popolazione umana sarebbe aumentata a livelli esponenziali. Una sola coppia avrebbe potuto generare quattro figli, che a loro volta ne avrebbe generati otto e così via .. ma la produzione di cibo non sarebbe mai aumentata con la stessa rapidità”.

Le sue convinzioni così ferree spinsero Malthus ad opporsi ad ogni aiuto materiale verso i più bisognosi. Di certo lo stato sociale era ancora lungi dall’attecchire, ciò nonostante, anche a quei tempi il buon senso, se non la carità cristiana, aveva spinto i legislatori, già alla fine del ‘500, ad approvare le English Poor Laws, che offrivano un pur modesto sollievo alle masse dei diseredati, all’interno di strutture di ricovero e soccorso denominate workhouses. Ebbene, l’esortazione di Malthus era la seguente: cancellate questi aiuti, perché non fanno che aggravare il problema, spingendo i poveri a sposarsi e a riprodursi in giovane età, andando così a gravare seriamente sulle risorse e sul bilancio della collettività.

Come detto prima, questo vangelo dell’insensibilità e del gretto controllo esercitato sulle fasce deboli riscosse un significativo successo nel dibattito pubblico, e spesso ne ritroviamo tracce significative nelle politiche egemoniche degli Stati Uniti d’America ancora in pieno ventesimo secolo.

Quel che può sembrare inesplicabile, non solo allo stesso Malthus ma anche a molti fra noi oggigiorno, è il motivo per cui persone immerse nella miseria più nera scegliessero di mettere al mondo così tanti figli. Il tasso di natalità in un paese come la Gran Bretagna, a fine del diciottesimo secolo si stagliava intorno a 6 figli per ogni coppia di genitori. Numeri che sembrano davvero difficili da comprendere, in una società asettica come la nostra. Occorre riflettere sul fatto, che le malattie e la denutrizione falciavano inesorabili la maggior parte dei bambini prima che potessero crescere e raggiungere la maggiore età, e diventare anch’essi genitori. Solo pochi riuscivano a sfuggire, sani e salvi, dalle terribili condizioni igieniche e alimentari, per diventare adulti.

Quanto al problema della scarsità di cibo, è evidente che Malthus e i suoi epigoni non seppero prevedere il grande miglioramento che la meccanizzazione avrebbe arrecato all’agricoltura. In tutto il pianeta, compresa la più “civilizzata” Europa dell’epoca, le coltivazioni fornivano poco più che un regime di sussistenza e occorrevano vaste lande di terra per sfamare un numero di persone che, ai nostri occhi, appare ridicolmente basso: si pensi che, intorno al passare del secolo, nell’anno 1800, si trovavano al mondo soltanto un miliardo di persone.

La crociata del reverendo del Sussex riuscì a convincere ampi strati della Gran Bretagna più retriva e meno compassionevole dall’epoca, a cominciare dalle classi privilegiate: nella folle gestione della carestia irlandese di metà ‘800, quando milioni di persone furono lasciate a morire letteralmente di fame, troviamo protagonisti alcuni malthusiani di ferro: basti ricordare la lugubre frase di Lord Clarendon , proprietario terriero nonché presidente della Camera di Commercio di Londra: “distribuire sussidi in forma di cibo semplicemente per mantenere in vita le persone non porterebbe benefici permanenti a nessuno”.

All’inizio del ventesimo secolo, questa cupa e spasmodica ansia di controllo esercitata verso le classi inferiori, mutò almeno in parte obiettivo e si indirizzò verso altri continenti e altri popoli. In realtà quando Malthus scriveva, la rivoluzione industriale non era ancora cominciata e quindi non poteva prevederne gli effetti; con l’industrializzazione e l’affermarsi della ricerca tecnica e scientifica, la produttività del lavoro umano (produzione/ore lavorate) crebbe più velocemente del tasso di crescita della popolazione, permettendo pertanto a tutti i nuovi nati, di accedere a sufficienti quantità di cibo.

Inoltre i primi, pur parziali successi delle lotte del movimento operaio e sindacale, permisero una più equa distribuzione delle risorse economiche e alimentari, quantomeno nel continente europeo. Infine, nonostante il capitalismo portasse spesso, tra la metà dell’800 e lo scoppio della Prima Guerra Mondiale, frequenti crisi con conseguente crollo dell’occupazione, la valvola di sfogo costituita dall’emigrazione verso il continente americano impedì che si riaprisse seriamente in Europa un problema di esubero demografico, basti pensare che fra il 1846  e il 1932 , come afferma Massimo Livi Bacci nella sua “Storia della popolazione del mondo” si calcola che siano partiti, per mete transoceaniche, 18 milioni di persone dalla Gran Bretagna e dall’irlanda, 11,1 milioni dall’Italia,  6,5 milioni da Spagna e Portogallo , 5,2 dall’Austria-Ungheria, 4,9 dalla Germania.

Occorre sottolineare che all’inizio della rivoluzione industriale, il continente americano possedeva come peculiarità una densità di popolazione assai più bassa rispetto all’Europa: ancora oggi, nonostante il numero altissimo di emigrati dall’Europa di cui abbiamo appena detto i numeri, gli Stati Uniti d’America possiedono una densità di abitanti per chilometro quadrato pari a 35, 1, risultato della divisione fra una popolazione di circa 329 milioni di persone e un’estensione di 9.372.614 chilometri quadrati. Se pensiamo che la densità italiana è di 206 abitanti per chilometro quadrato, ovvero circa 6 volte tanto, capiamo come, anche all’interno del “primo” mondo, quello più ricco e industrializzato, vi siano differenze abnormi.  

Come accennavamo in precedenza, negli anni ’20 e ’30 e seguenti, la volontà di contenere l’aumento della popolazione assume connotati di chiara matrice razzista e si affretta a chiamare in causa una scienza a dir poco controversa quale l’eugenetica, che utilizza con disinvoltura, o per meglio dire disprezzo delle più elementari norme di civiltà, conoscenze nel campo della genetica al fine di “migliorare” le caratteristiche di una specie o di un organismo eliminando tratti ereditari indesiderati. Oltre alla delirante fascinazione per gli esperimenti su cavie umane, che vide protagonista come purtroppo sappiamo il regime nazista, peraltro apprezzato in questo da maggiorenti d’oltreoceano, lo sviluppo dell’eugenetica significò un utilizzo forzato, ovvero imposto senza il consenso, della sterilizzazione su ampi settori di popolazioni di continenti controllati politicamente dalle potenze coloniali e post-coloniali. Arriviamo così agli anni 1960, quando l’amministrazione democratica di Lyndon Johnson obbligò il governo dell’allora primo ministro Indira Gandhi ad accettare la sterilizzazione forzata di molti giovani maschi delle campagne indiane, in cambio di aiuti economici e di cibo.

Col finire del dominio coloniale, si apre una fase storica con tratti decisamente nuovi, che corrisponde agli ultimi cinquant’anni della storia mondiale. In alcune culture, fino a non molti anni fa, si tendeva a credere che una forte crescita demografica fosse il presupposto indispensabile ad una crescita del tessuto industriale ed economico, possiamo dire che tale convinzione non è stata del tutto rigettata in alcuni paesi più dinamici del continente asiatico.

Il caso della Cina, super-potenza economica di questo inizio di ventunesimo secolo, può contribuire a spiegare meglio come le politiche demografiche possano cambiare verso e direzione a seconda del mutare dei regimi politici,  e come al tempo stesso anche le politiche più autoritarie, financo efferate, non siano del tutto efficaci nell’imporre una certa disciplina nella pianificazione familiare.

Tra metà ‘800 e metà ‘900, la popolazione cinese era rimasta sostanzialmente stabile, diversamente da quanto avvenuto in molte altre parti del mondo. Ciò si dovette ad una gestione oculata della propria fertilità da parte dei cinesi, che consisteva nello sposarsi non di rado in tarda età, nell’astinenza periodica dai rapporti sessuali, e purtroppo in diversi casi, nell’infanticidio.

Questo insieme di consuetudini venne meno con la rivoluzione comunista del 1949. Nella visione di Mao, il primo dovere del popolo cinese consisteva nel procreare in ampia quantità, in modo che l’esercito potesse disporre di un numero di soldati adeguato all’offensiva che presto sarebbe giunta dal mondo capitalista, così almeno Mao confidò a Nikita Chruscev nel 1960.  Antibiotici e vaccini vennero diffusi tra le masse, e vennero create infrastrutture fognarie. Come spiega Fred Pearce nel suo “Il pianeta del futuro” nei primi otto anni di vita del regime, l’aspettativa di vita salì da trentacinque a cinquant’anni. Le mosse successive, si rivelarono tutt’altro che felici: l’industrializzazione a tappe forzate, voluta da Mao, significò l’abbandono dei campi agricoli, e quindi la carestia. Alla metà degli anni ’70, sappiamo da fonti cinesi che il numero di decessi in Cina fu tre volte superiore alla norma, per un totale di 25 milioni di persone. Ciò nonostante, la popolazione cinese crebbe forsennatamente, dai 583 milioni del 1953, ai 700 milioni del 1963, al miliardo del 1980. Con la fine del regime di Mao, i funzionari al potere si videro costretti a mutare in direzione di un severo restringimento del diritto alla procreazione. Nasceva così con Deng la norma obbligatoria del figlio unico. Tale provvedimento è rimasto in vigore a pochi anni fa, anche se soprattutto dal 2000 in avanti, subì una certa attenuazione, ed in alcune regioni di campagna venne consentito avere un secondo figlio.

Quel che sembra avere maggiormente influito nel convincere le popolazioni asiatiche ad indirizzare la propria esistenza verso una diversa serie di valori, allontanandosi così dal desiderio legato alla riproduzione e al mondo della famiglia, è l’affermarsi, a livello globale, di quel desiderio di affermazione di sé, legato all’acquisizione e al consumo di oggetti di lusso, che è tipico del pensiero unico odierno. Più che i diktat del singolo governo, ha potuto l’affermarsi, pressoché incontrastato, del modello di vita consumistico di marca occidentale, capace di arrivare dove non poterono i severi moniti malthusiani.

Le frequenti migrazioni, all’interno dei singoli stati, ma anche da uno stato o da un continente all’altro, hanno portato milioni di donne a rivedere il proprio ruolo all’interno della famiglia e della comunità di appartenenza, rivedendo le proprie priorità personali ed esistenziali. Da qui l’abbandono, almeno parziale, del ruolo di madre per scelte ben più compatibili con lo stile di vita veicolato dai mass-media occidentali.

Queste nostre considerazioni potrebbero, per certi aspetti, portare a credere che il problema della coesistenza fra la specie umana e le altre specie sia destinato a risolversi da sé. Purtroppo non è così: oggi  ci troviamo in uno scenario dove le risorse terrestri sono già pienamente impiegate (Overshoot day, WWF 2018); non è più possibile uno sviluppo quantitativo della produzione, pertanto, anche le future innovazioni tecniche potranno al massimo ridurre il carico orario di lavoro, ma non aumentare la produzione materiale, perché mancherebbero letteralmente le materie prime da lavorare. Come detto all’inizio di questo nostro articolo, sarebbe già un successo difendere il livello di produzione attuale dal feroce attacco che viene dai cambiamenti climatici, causati come sappiamo da un eccessivo ricorso alle energie fossili come il petrolio.

Quindi il problema di controllare la crescita della popolazione è ancora presente, ma fortunatamente in un contesto di abbondanza dove, almeno per oggi, ce ne sarebbe abbastanza per tutti per vivere più che confortevolmente (se sapessimo redistribuire e controllare le nascite).

Esiste una corrente di pensiero politico-culturale definita neo-malthusianèsimo, che riprende il nucleo  delle rigide prescrizioni di Malthus, partendo da assunti ancor più anti-democratici e anti-egualitari. I neo-malthusiani insinuano, anzi urlano senza mezzi termini che la popolazione va ridotta drasticamente, riprendendo quelle politiche forzate di sterilizzazione nei confronti della parte più povera del globo, o giungendo ad altre forme ancor più violente di eliminazione fisica. Queste posizioni si sposano con la dottrina del transumanesimo. Quest’ultima guarda con favore ad un pianeta ricondotto a luogo esclusivo di piacere, di eterno villaggio-vacanze per una quantità limitata di eletti, di nuovi esseri, trasferiti dalla primitiva dimensione umana ad una artificiosa, 2.0, che auspica e approva l’ibridazione del corpo e della mente umani con parti elettroniche e meccaniche.

La nostra associazione rigetta nella maniera più assoluta questo genere di deriva, che è contraria e nemica dello stesso genere umano, oltre che del pianeta nel suo insieme.

Ciò non significa che non si debba ragionare con attenzione su quale sarà lo sviluppo demografico del pianeta, e quale sarà la gestione e la distribuzione delle risorse mondiali. Prima di tutto, occorre separare fra loro filoni culturali e  politici che sono diversissimi fra loro, e che solo l’attuale confusione dettata dall’ignoranza e dalla malafede può accostare.

Ci riferiamo alle accuse che negli ultimi decenni, il Club di Roma ha dovuto subire suo malgrado, venendo accostato ai neo-malthusiani. Il Club di Roma nacque mezzo secolo or sono, nel 1968, grazie all’impegno intellettuale di Aurelio Peccei, che seppe coinvolgere un gruppo di giovani e valenti scienziati per indagare sugli sviluppi che l’economia capitalistica avrebbe arrecato a breve e medio termine, su quale negativo impatto avrebbe avuto sull’ambiente in cui ciascuno di noi vive.

Il Club di Roma si è sempre detto favorevole ad una serie di misure volte a ridurre la tendenza alla sovrappopolazione. Tali misure, va detto a chiare lettere, negli intenti dei fondatori del Club di Roma, dovevano e devono essere in tutto e per tutto rispettose della dignità e del benessere umani, e volte in particolare ad accrescere il tasso di alfabetizzazione in tutti i continenti. L’esperienza, infatti, insegna che un elevato tasso di diffusione della conoscenza e della cultura è inversamente proporzionale ad un aumento incontrollato e vertiginoso della popolazione.

Questo modo di guardare al futuro ci vede d’accordo. Dal 2000 ad oggi, sul nostro pianeta la popolazione ha visto un aumento di circa 80 milioni di persone ogni anno; le previsioni sullo sviluppo demografico, da parte del Club di Roma, ci dicono che fra una ventina d’anni, intorno all’anno 2040, la crescita della popolazione mondiale dovrebbe sostanzialmente arrestarsi. Per onestà intellettuale, occorre dire che altri studiosi ritengono che, per inerzia, la popolazione potrebbe crescere, anche se in maniera meno accentuata, anche nella seconda metà del ventunesimo secolo, arrestandosi in ogni caso giunti all’anno 2100. Secondo costoro, la popolazione alla metà del secolo, nel 2050, ad una popolazione di nove miliardi e mezzo di individui. Quanto a ciò che avverrà nella seconda metà del ventunesimo secolo, la previsione si fa anche più ardua, si ipotizza da parte di alcuni una cifra vicina agli undici miliardi di individui.

Il mutare del sistema di valori, portato anche dalla fascinazione per il modello di vita plastificato e colorato dell’occidente, inteso in senso lato e slegato da una precisa appartenenza geografica,  potrebbe secondo alcuni, portare addirittura a lungo termine ad una riduzione della popolazione mondiale.

Abbiamo lasciato alla fine di questo nostro testo il panorama europeo. Il “vecchio continente” è un’espressione quanto mai appropriata, vista la tendenza all’invecchiamento della popolazione europea, non compensata da un tasso di natalità adeguato. Infatti, se il tasso di natalità utile a mantenere costante la popolazione di un dato paese è di 2,1 figli per ogni donna, è evidente che l’1,3 italiano di questi ultimi anni è del tutto insufficiente a coprire i bisogni demografici della nostra popolazione.

Nel suo ultimo volume, Luca Mercalli afferma che “l’Istat comunica che entro il 2065 la popolazione italiana calerà dagli attuali quasi 61 milioni a circa 54 milioni, in quanto le future nascite non saranno sufficienti a compensare i decessi, per via dell’intenso processo di invecchiamento”. Mercalli prosegue affermando che, a suo modo di vedere, questa si può vedere come una buona notizia, poiché le limitate risorse di cui dispone il pianeta, parliamo di acqua, vegetali, fonti energetiche non permettono di guardare di buon occhio ad una crescita indefinita della popolazione, sia a livello nazionale che mondiale.

Personalmente, crediamo che questo modo di vedere le cose contenga in sé molto di vero. Un altro intellettuale come Serge Latouche parlava nei suoi libri del “caso italiano” ovvero di un caso di “decrescita demografica volontaria”. E’ davvero così? Leggendo testi di demografia, si capisce che spesso le cause dell’aumento (o della diminuzione) della popolazione in un dato paese possono essere le più diverse, spesso anche in aperto contrasto le une con le altre. Se come abbiamo già detto, una delle ragioni della diminuzione del tasso di natalità va senz’altro ricercata nel maggior attrazione esercitata da uno stile di vita individualistico e improntato all’edonismo, è senz’altro altrettanto vero che esiste una fascia di popolazione che desidererebbe  procreare, ma non può farlo, perché oppressa dalla mancanza di prospettive occupazionali, dalla penuria di misure di assistenza al reddito e dall’assenza quasi totale di welfare che venga in aiuto alle giovani coppie e ai loro bambini (asili nido gratuiti o a basso costo, congedi parentali garantiti e tutelati per legge, defiscalizzazione per la famiglie numerose). Misure che esistono da lungo tempo presso i nostri cugini francesi, che possiedono un tasso di natalità ben diverso dal nostro, 1,92.

Per concludere, ci permettiamo di affermare che un contenimento della popolazione debba rimanere un obiettivo importante, da tenere sempre a mente, e che al tempo stesso chi intende porre al centro della propria vita la procreazione debba essere tutelato e aiutato nei modi che abbiamo sopra descritto. Le due cose non sono in contraddizione fra loro, perché quand’anche la temperie culturale e politica dovesse andare in direzione di una riscoperta del valore della famiglia numerosa come parte fondante di una comunità statuale, difficilmente si assisterebbe ad una rapida ascesa, o per meglio dire, di un ritorno alla natalità come aveva luogo nei secoli passati.  Di certo, spiace che una maggiore sobrietà da parte di molti nel mettere al mondo dei figli sia legata a pseudo-valori legati al consumismo, e non a scelte di vita più consapevoli e mature, maggiormente legate ad una cura della propria vita intellettuale e culturale e ad un maggior impegno civile e politico verso l’esterno.

Lo affermiamo perché il calo della natalità si accompagna non di rado ad un analogo calo del numero di coppie, sposate o conviventi: il rischio di un’atomizzazione del nostro tessuto sociale, con persone che spendono la propria vita chiusi nel proprio appartamento, fino a morire in solitudine. E’ lo scenario desolante che viene descritto da Erik Gandini,
già autore di Videocracy, nel documentario “La teoria svedese dell’amore”; politiche “progressiste” miranti a “liberare” i giovani dai vecchi, le donne dagli uomini, hanno condotto la società svedese in un vicolo cieco, dove i legami sociali ed affettivi sono talmente tenui da essere impalpabili. Uno scenario, peraltro, che assomiglia molto a quello italiano, e sul quale bisognerà lavorare per una seria e significativa inversione di tendenza.

Bibliografia:

Massimo Livi Bacci, Storia minima della popolazione del mondo, Il Mulino, Imola, 1998

Fred Pearce, Il pianeta del futuro, Mondadori, Milano, 2013

Luca Mercalli, Non c’è più tempo, Einaudi, Torino, 2018

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