Grandi Opere. Edilizia nazionale: rinnovare i processi, ricostruire il Paese – parte 2.

Il tema delle grandi opere non può però non intrecciarsi a doppio filo con quello del lavoro. Attualmente, soltanto in Italia, oltre al Tav, ci sono già cantieri aperti per altre 11 grandi opere: Terzo Valico Genova-Milano (6,6 miliardi), Gronda Genova (5 miliardi), Tav Brescia-Padova (7,7 miliardi), Tunnel del Brenero (5,9 miliardi), Pedemontana Veneta (2,3 miliardi), Tangenziali Venete (2,2 miliardi), Autostrada regione Cisalpina (1,3 miliardi), Autostrada cremona-mantova (1 miliardi), terza corsia A11 Firenze Pistoia (3 miliardi), autostrada tirrenica (1,8 miliardi), Statale Jonica (1,3 miliardi). In tutto ci sono in corso oltre 21 miliardi di euro in grandi opere pubbliche che si stima coinvolgano 418.000 posti di lavoro[1]. In un periodo di crisi ininterrotta per oltre 10 anni, con la disoccupazione oltre al 10% e il precariato oltre il 15%, non si può restare insensibili alle istanze delle popolazioni locali “affamate” di lavoro. Le grandi opere pubbliche possono rappresentare una boccata di ossigeno in quei contesti sociali particolarmente deprivati come molte regioni del Sud. Ed è qui che proponiamo una prima riflessione sulle grandi opere.

Le grandi opere infrastrutturali non sono inutili a priori; esse, se ben pensate, possono 1) dare lavoro 2) rilanciare i consumi e 3) dotare il Paese di una rete infrastrutturale efficiente e moderna. La vera questione però è riuscire a distinguere quando una grande opera è davvero necessaria al Paese da quando rappresenta solo una mangiatoia per il settore edilizio. Inoltre, cosa forse più importante, le grandi opere pubbliche possono assolvere al meglio la loro funzione se si trovano all’interno di un vasto programma nazionale di investimenti strategici, pensati per orientare lo sviluppo del Paese nei decenni a venire. Un programma di investimenti mirati e coordinati attorno a obiettivi comuni permetterebbe di ridare slancio alla produttività italiana, all’occupazione e al contempo ridurrebbe sensibilmente i rischi di fare tante opere pubbliche a pioggia, in ordine sparso, senza un orizzonte comune che le distribuisca in modo strategico e inter-dipendente, con la conseguenza che poi vengono abbandonate, sottoutilizzate o mai completate.

In questo momento, invece, le grandi opere pubbliche, per come sono gestite, rappresentano più che altro, un sistema sicuro di profitti in un contesto di crisi e incertezza generale dei mercati internazionali. L’evoluzione della gestione delle grandi opere pubbliche riflette il più generale processo di globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia. La grande impresa del capitalismo globalizzato è oramai caratterizzata dall’outsourcing, che ha svuotato completamente la tradizionale fabbrica fordista. Si è passati da un’organizzazione “a catena piramidale” che internalizzava tutti i processi, ad un sistema “a rete virtuale” che esternalizza ogni fase della produzione, spesso in paesi molto distanti tra loro. Le moderne grandi imprese, a cui non fanno eccezione quelle edili, scaricano la competizione verso il basso attraverso una ragnatela di appalti e subappalti finendo per indurre, anche nella piccola e media impresa, una competizione tutta fondata sullo sfruttamento del lavoro nero, precario e atipico. Ai contratti tipici di appalto poi, se ne sono aggiunti altri (il project-financing, il global-service, il contraente generale, il contratto di disponibilità, il leasing immobiliare), nei quali la filiera del sistema della sub contrattazione non solo diventa più lunga e più articolata, ma si rendono anche inutilizzabili o di difficile applicazione le norme di contrasto della mafia, della corruzione o di tutela del lavoro, che sono state concepite e codificate per le procedure di affidamento tradizionali dell’appalto tipico[2].

Inoltre nelle grandi opere pubbliche, s’inserisce la finanza, il nuovo giocattolo della globalizzazione. Già di per sé, nel contratto di appalto è connaturata una fisiologica esposizione finanziaria dell’appaltatore: sia perché egli anticipa le risorse necessarie, sia per il patologico ritardo nei pagamenti della pubblica amministrazione. Con i nuovi istituti contrattuali (i noti prodotti finanziari derivati), il valore dell’opera pubblica nei mercati finanziari si dilata enormemente[3]. Per assicurarsi e contro-assicurarsi o scommettere in modo azzardato, molti comuni hanno fatto uso di prodotti derivati finanziari finendo in molti casi sull’orlo del fallimento.

Le grandi opere pubbliche non sono più costruite dallo Stato attraverso i suoi enti pubblici economici e le sue imprese, né restano una sua proprietà una volta ultimate. Lo Stato ci mette i soldi, alcuni privati guadagnano costruendo l’opera e altri privati acquistano l’opera una volta completata per sfruttarla a scopo di lucro o ottengono immediatamente una concessione dallo Stato allo stesso fine. Se poi l’attività risulta remunerativa, all’impresa concessionaria vengono accordate condizioni spesso assurdamente privilegiate (caso Autostrade per l’Italia), altrimenti, se i profitti si rivelano nulli o negativi, la nuova grande opera viene ri-pubblicizzata, nell’ormai noto processo di privatizzazione dei profitti e nazionalizzazione delle perdite.

La sfida allora è ripensare il settore edile e dare una politica industriale seria al paese. Le grandi opere pubbliche vanno calibrate sotto un profilo strategico. Innanzitutto definire le priorità: chi vogliamo agevolare con le grandi opere pubbliche? Sicuramente bisognerebbe partire dalle classi più svantaggiate e quindi, ad esempio, invece di buttare decine di miliardi nel Tav si potrebbero costruire metropolitane nelle grandi città ancora sprovviste e potenziare il trasporto pubblico locale (si pensi solo a cosa voglia dire aspettare un autobus a Roma!). Inoltre, a livello geografico le grandi opere dovrebbero concentrarsi più al Meridione che altrove. Le infrastrutture, infatti, in generale, sono il nodo centrale per lo sviluppo della produttività di una regione economica e il Sud meno sviluppato, non a caso, ne è sistematicamente carente. Secondo una recente analisi dell’ANCE, al Sud ogni 1000 kmq ci sono 18 km di autostrade contro i 30 km del Nord e i 20 km del Centro. Analoga la situazione ferroviaria: con un territorio che copre oltre il 40% del suolo nazionale, il meridione ha poco più del 34% della rete ferroviaria italiana[4]. Un treno Milano-Bologna impiega 62 minuti a completare la tratta, mentre il treno Catania-Palermo, all’incirca della stessa distanza, impiega 6 ore. Ma investimenti sarebbero necessari anche nel settore manifatturiero, attraverso l’apertura di nuovi stabilimenti. Un piano di alcune grandi opere pubbliche affiancato da altre minori, ricco di risorse, potrebbe rafforzare la struttura industriale del Sud e rilanciarne l’occupazione. Tuttavia, non si può realizzare a un simile piano strategico di investimenti senza cambiare l’attuale sistema imprenditoriale edile e l’attuale sistema di appalti e concessioni. Sul tema delle grandi opere, infatti, non è importante solo decidere, di volta in volta, per il ‘sì’ o per il ‘no’, ma conta anche il processo con cui si intende realizzare la grande opera. Argomento troppo ampio per questa sede, ma ci limitiamo comunque a proporre le linee guida.

Il sistema stesso degli appalti è una calamita di corruzione senza fine in cui mangiano imprenditori, mafia e politici. Innanzitutto, nel sistema di assegnazione delle grandi e medie opere pubbliche i colossi del mattone hanno molti più canali, anche indiretti e illegali, per influenzare clientelarmente il decisore pubblico. Poi l’amministrazione pubblica rallenta il processo perché per ogni opera pubblica deve bandire un concorso e valutare i progetti. Poi quasi sempre accade che uno o più sconfitti dei partecipanti al bando fanno ricorso in tribunale iniziando un contenzioso amministrativo che allunga tempi e oneri per lo stato e le aziende; infine, tutto si condisce con il rischio di ingerenze mafiose a tutti gli stadi del processo.

Sarebbe forse più saggio portare in mano pubblica il settore edile, anche se in chiave innovativa. Si potrebbero sostituire le attuali grandi imprese edili assieme a tutte le micro-imprese da sub-appalto, con enti pubblici edili locali e nazionali (nazionalizzazione) organizzati in forma cooperativa (socializzazione), che si occupino direttamente (senza sub-appalti o rete fumose di esternalizzazioni) di tutta l’edilizia, sia infrastrutturale sia residenziale, limitatamente al comune o all’area di competenza assegnata (zero competizione). Dovrebbero essere enti senza scopo di lucro, ma col solo obiettivo di assolvere alle necessità edili espresse dal governo centrale e dalla popolazione locale, con il divieto di distribuzione degli utili che dovrebbero invece essere integralmente investiti per il rinnovo dei propri macchinari e del personale, così che sia spezzato l’incentivo negativo ad alzare i costi per distribuire i profitti ai pochi grandi azionisti e manager. Il prezzo dovrebbe essere concordato con l’amministrazione locale dotata di tecnici esperti di valutazione immobiliare/infrastrutturale per impedire la speculazione; se i costi finali saranno minori del previsto grazie all’efficienza nel lavoro il surplus sarà distribuito tra i tutti gli impiegati secondo opportune quote; se invece fossero maggiori del previsto il compenso di tutti scenderebbe, incentivando tutti a lavorare con onestà e professionalità. In tal modo, una volta che l’amministrazione pubblica ha stabilito le opere necessarie, i lavori partono subito, senza bandi, concorsi, assegnazioni e contenziosi, perché ogni Comune avrebbe la propria impresa edile di riferimento e per le grandi opere strategiche ci sarebbero le apposite imprese su scala nazionale. Infine, il Lavoro sarebbe tutelato, le infiltrazioni mafiose praticamente azzerate, e il paese, economicamente, ne uscirebbe rafforzato anche sotto il profilo della produttività (sfruttando le economie di scala).


[1] Milena Gabanelli, “Saltati mezzo milione di posti di lavoro e 15 grandi imprese in pre-fallimento”, Corriere della Sera, 6 gennaio 2019. https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/grandi-opere-pubbliche-infrastrutture-saltati-mezzo-milione-posti-lavoro-15-grandi-imprese-pre-fallimento/6898462a-102a-11e9-979d-2767d72e669d-va.shtml?fbclid=IwAR2bpKrbiRIn4A8NRlIBZ3s8_ZVff4kuzO7ItgETmsdIKG7Dcr8Kg_Hdejo&refresh_ce-cp

[2] “Appalti Tav, Bongiovanni: ‘non si potranno applicare le regole antimafia’ ”, NoTav.Info, 19 settembre 2016. http://www.notav.info/documenti/appalti-tav-bongiovanni-non-si-potranno-applicare-le-regole-antimafia-italiane-appalti-tav-bongiovanni-non-si-potranno-applicare-le-regole-antimafia-italiane/

[3] Ivan Cicconi,  “Alta velocità: opere e capitalismo”,NoTav.info,24 aprile 2014. http://www.notav.info/documenti/alta-velocita-opere-e-capitalismo-di-ivan-cicconi/

[4] Convegno ANCE – Rapporto Sud – “Emergenze e opportunità per far ripartire l’Italia dal Mezzogiorno”, 27 settembre 2018.

http://www.ance.it//net_ance/strumentiorga.aspx?id=4751&pid=-1&pcid=98&docId=33856